giovedì 24 dicembre 2009

Il gerundio del partire. Il participio passato dello scrivere

Ho un singhiozzo che mi fa sobbalzare. Impertinente come pochi stasera. Anzi l'ho conosciuto pochi minuti fa e da allora non mi molla. Ingranavo la terza sulla 131 ed era un problema farlo se non al ritmo che quello imponeva.. Meno male ho preso la 131 camionale. Dove non c'era nessuno e per poco non mi addormentavo. C'era il singhiozzo comunque a tenermi sveglia. Se troverete errori in questo poost sarà a causa sua, del si nghiozzo.
Per il resto pensavo al mollare gli ormeggi. Mi commuovevo un po' oggi a riguardare il momento dei due Fresi. Proprio l'atto del mollare le cime, lanciarle in banchina, salutare la folla sul molo. Loro lasciavano Porto Torres per avanzare verso ciò che non sapevano. L'ignoto attendeva. La Hellenspont li avrebbe recuperati sette mesi dopo nel cuore più profondo del Pacifico e Piero rischiò di non farcela.
Mollare gli ormeggi.
Caspitina il singhiosso... faccio sforzi per correggere ogni errore.
Mollare gli ormeggi e andare. E' un piacere che niente l'eguaglia. Significa: io vado. Io. Vado. Il resto è mare. Il resto lo vedrò. Sto partendo.
Mai gerundio era stato più gonfio. Mai più narrante il presente. L'azione più cocente. Sono in viaggio. Viaggiando. Ecco, non so che sarà di me. Non lo sapete voi, a cui pure comunico il mio stato, anzi il mio stando. E non lo so io.
Cosa succederà? A quelli toccò il naufragio nel mezzo del Pacifico, ma quando mollavano gli ormeggi davanti casa, come avrebbero potuto saperlo?
Mollare gli ormeggi significa tutto il possibile. E' come dire: sto respirando, non so se respirerò fra mezz'ora.
E poi pensavo allo scrivere.
Scrivere non è gerundio. Quando arriva, la scrittura è già compiuta, è un bene risolto, soddisfatto, dato, avuto. Non è mai un sto scrivendo. A chi può interessare questo fatto? Interesserà semmai lo scritto. Qualcosa che è in "scrivendo" non attrae nessuno. Solo ciò che è scrittò può avere dignità. Il gerundio dello scrittore è qualcosa di possibile solo per lo scrittore. Non per il leggente.
Non c'è pubblico per il mollare gli ormeggi della scrittura.
Ora, esistono due piaceri forti e distinti.
Quello del mollare gli ormeggi e quello dell'aver scritto.
Il primo non torna indietro a nessuno, il secondo si. In un caso hai lasciato che il destino si affidasse alla barca e che fossi tu l'unico protagonista, nell'altro hai restituito qualcosa.
L'uno però fa decollare gli ormoni del sogno e della speranza. L'altro è pura compiacenza.
Stasera nella piazzetta immacolata intitolata a un giurista di nome Domenico Azuni avrei dovuto decidere se fosse più forte dentro me la facoltà della scrittura, del restituire, o se vince invece il vento contromano, come l'ha definito un ubriaco passante e che non conosco, che spira da sud e che spingerebbe bene una barca verso il largo.
Da là lancerei gli ormeggi sopra la banchina per andare lontano, per non sapere quello che non so e quindi per sognare.
Ma poi avrei restituito qualcosa a qualcuno?



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mercoledì 11 novembre 2009

Il marinaio in polvere

Si fa tardi. Gli orari chiudono.
Le bionde continuano a spazzare le strade, ne siamo affascinati alle quattro del mattino, mentre i furgoncini dei cornettari scaricano paste dietro le vetrine accanto ai nostri piedi felici e colossei.
Le storie d'amore ci ferirono, offendevano i cuori, un affronto alla stabilità emotiva. Decine di messaggi crudeli e bellissimi facevano recapito sulle tue antenne di gallo ruspante. Attendevi che la perfezione ti cogliesse, ma s'è dispersa come la polvere sfugge alla scopa più accanita, sulla strada, sotto gli angoli dei marciapiedi, dentro le fessure delle porte che restano chiuse.
Possiamo decidere tutto. Tranne la polvere.
Era dal '68 che non buttavo giù due righe di pensieri dal terzo piano.
Non so più dove sia stata l'ultima volta. Credo in un paese straniero.
Il marinaio gettava anche lui versi sfasati alle onde e andava di corsa ad accarezzare il sale sopra le draglie.
Il marinaio inventava miscugli di parole,
lo ascoltava un dio qualunque, uno non suo,
prendeva appunti sopra un taccuino di cenere
soffiandoci sopra l'attimo dopo.


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domenica 18 ottobre 2009

Exit door

Non c'e' aria, solo pioggia e Istanbul non tiene. Un altro viaggiatore entra all'ostello, c'e' posto, ormai abbiamo tempo per tutto, anche per dimenticare l'Aya Sofia e la moschea blu. Orde di francesi banchettavano fra loro, un altro buenasdias senorita como estas? un altra mattina ad aspettare i ricordi sulla panchina piu' inutile di tutte. Il corno d'oro e' zeppo di pescatori anche alle due del mattino. Il mondo arriva in citta' e s'illude d'Oriente, raro chi usa questa porta per uscire. Il mercato di Kadıkoy suggerisce l'Anatolia, ma il Bosforo e' una menzogna e la maratona dei due continenti non parla kurdo, ignora i falafel di Aleppo, non sa di polvere ne' di dischı di pane stesi sui marciapiedi sporchi, non indossa il burka, non serve çay, non canta con la voce dei minareti. L'ultimo e' stato all'una. A Safranbolu fu una stella cadente ad ınterrompere la luce e una nuda gola a richiamare la preghiera. Quando sara' il prossimo muezzin?

sabato 10 ottobre 2009

Sinope


A Sinop non c'entro nulla. Cosi mi piace rimanere. Nella cıtta' in cui Diogene nacque e comincio' a cercare l'uomo, io trovo un caffe' delle Amazzoni sdoganate da turban e veli d'Islam. Impilano tessere di okey takimi e l'unico uomo del locale serve çay in silenzio. Un cane bianco continuo a vederlo ogni volta che salgo su un autobus. Un nano spunta da una bassa porticina all'angolo buio della strada, come ieri. Nessuno che parli una lingua conosciuta.

martedì 6 ottobre 2009

Pance kurde

Ecco, e' arrivato l'ennesımo çay della giornata. Si perde pensiero dietro la baruffa di Van, ricoperto di polvere fra orde di kurdi che calpestano. Tacchi, passeggini, carrozzine, scarpe di uomo con punte sollevate all'ınsu', calpestano ancora tutti insieme, come soldati impazziti al richiamo dı guerra, pezzi di strada urbana che pero' sono trincee, non marciapiedi. E laggiu' un lago in sogno che sfugge stanotte sulla moquette dell'ultimo bus, che' il tempo si e' fatto chissa come maturo e attende solo il mare nero. Alle spalle anche la porta dı Tatvan. Un albergo qualunque, tanto per essere pronti domani, ma c'e' Hasan al desk che non aspetta nıente altro. Welcome ın Kurdistan! Perche' noi non abbiamo una terra? Le teste mozzate dı kurdi sono immagini degli anni '80 e arrıvano alla pancia in un moderno istante. San Marino, Monaco, cosi pochi ma con una terra. Solo una terra. Di nostro noi abbiamo solo i corpi e una lingua e famiglie numerose e bambini che continuano a fiorire nei ventri delle nostre donne. Cosi e' la rivoluzione. Dentro le pance.

lunedì 5 ottobre 2009

Sopra le teste una diga d'Ilisu. Hasankeyf non vuole morire

Il Tigri fa rumore la notte. Piu' rumore d'ogni altra cosa.
Lo faccio cantare dal suo letto fino al mio, poche decine di metri piu' in su e non c'e' fretta di dormire.
Qui lo chiamano Dicle. Hasankeyf nel fiume ci si bagna da millenni, ne sconcia le acque per portarne via anguille e carpe. Le vendono a dieci metri dall'unico motel del paese. I ragazzi hanno le gambe a mollo dal mattino. Un'autoclave aspira sulla riva orientale, toglie sete alle capre e alla terra. Non c'e' molto di piu', a parte uomini ai bar che bevono çay e lanciano dadi dentro una tabla, donne col turban, bambinetti al pascolo e uno spettacolo inatteso di pareti rocciose, bucate, morbide di scalpellii antichi, saliscendi fra tombe e case e santuari della preistoria, minareti di pietra e il nome di Maometto novantanove volte inciso.
Dodici mila anni di storia una diga potrebbe sommergerli in novanta metri d'acqua. E l'unico turismo possibile diverrebbe quello dei palombari.
Cosi vogliono far crescere il Tigri. Allontanando dalle proprie residenze 70 mila persone sparse in circa 60 villaggi tutti di origine kurda. E annegando ogni ricordo.
Sono cinquant'anni che in questo tratto di Mesopotamia come ad Hasankeyf si attende una morte indecisa.
Hizir ha compiuto ierı 23 anni. E' nato qui e se ne sta dietro ıl banchetto della Doğa a salutare i visitatori. L'associazıone naturalistica con cui collabora e' impegnata da tempo nella dıfesa della vita del piccolo villaggio e di tutta la valle. "Sei mesi fa Germania, Austria e Svızzera erano pronte a dare i soldi necessari per la costruzione della diga": ha fretta di dire, cerca nell'aria parole in inglese. "Ora si sono fermati. Venite ad Hasankeyf, gli abbiamo detto noi, venite a vedere questo luogo e poi dite se volete spendere i vostri soldi per un progetto cosi".
Per costruire la diga di Ilisu, i cui lavori sarebbero gia' iniziati a Dargecit, 80 chilometri a sudest dı Hasankeyf, occorrono 2 miliardi e 750 milioni dı euro. Il governo turco non dispone della cifra, ma in paese qualcuno sostiene che fra tre mesi un nuovo finanziamento potrebbe permettere il riavvio dell'opera. Nei progetti del Dsı, l'ente statale che controlla le acque del territorio, sono il miglıoramento della rete idrica e lo sviluppo di industrie e centrali idroelettriche.
La costruzione della diga consentirebbe al governo turco un controllo su un'immensa riserva d'acqua di cui anche gli Stati confinanti avrebbero bisogno. Siria, Iran e Irak hanno gia messo il loro veto contro la realizzazione del progetto.
Nelle case dei residenti da tempo sono arrivate lettere del governo. "Ci hanno offerto 10 mila euro per la casa - dice Baran che ha 24 annı e quando non gestisce il motel di famiglia insegna nelle scuole storia e geografia - e circa 40 mila euro per l'albergo". Una proposta che suo padre non ha esitato a rifiutare a suo tempo. "Se costruissero la diga saremmo costretti ad andare a vivere piu' in la, a tre chilometri da qui". Dove pero' non c'e' niente.
"Siamo kurdi - dice il giovane Welat - il governo non ci aiutera'".
L'autobus per Tatvat e' arrıvato. I bagagli sono gia fuori dal motel. "Baran significa pioggia" allunga la voce il locandiere. Acqua ancora, acqua eterna, acqua che viene dal cielo e che un muro piu' alto di tutte le vite umane non esiterebbe ad accumulare sopra ogni storia.

Qui ıl trailer di Waiting life e un reportage dell'Osservatorio dei Balcani

Hasankeyf












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venerdì 2 ottobre 2009

Cisterne rosse ın deserto

Piedi passano lenti e pesanti di sacchi, carrelli a spınta, passaporti alla mano. Qamıslı e' uno schianto dı spazzatura folgorata all'alba a due metrı dalla frontiera. La Siria sta gıa' dıetro ıl mıo sacco a spalla. La storıa suı banchı dı scuola ha ublıato dı menzıonarne la bellezza maestosa, colonnata e ıntarsıata su marmı e pıetre sperdute in deserto.
Scorrono via sotto occhi saturi di sabbia ingabbiati dietro ıl vetro di un bus la corsa deı bambını verso nıente, il rıposo dı donne per terra a gambe piegate, keffıah rosse attorno a motorını sbılenchı in autopsıa tra la polvere.
Ciuffi dı auto gialle in una praterıa di cemento, ripeteva un amıco ın accento francofono. I taxi di Aleppo non riposano nemmeno il venerdi. Ammaccati usano le trombe come navi pesanti in uscita dai porti.
Per le vie del souk senza straneri sciami di ınfantı come moscerini al crepuscolo corrono dietro. Crazy! Crazy! Woman! Woman! Fanno baccano come lattine appese al paraurti di un'auto di sposi in un matrimonio all'antica. Sı arrampıncano su per la cıttadella antıca. Per qualche lira promettono dı salıre piu' ın alto.
La fessura severa dei bourka libera sguardi indagatori. Dentro un cortıle nascosto le femmıne fumano sigarette e ciarlano. Sediette di paglia, veli sollevati, una tazza di caffe' sı rovescıa al bordo delle cıabatte, marmocchi offrono caramelle e fuggono via.
Lontano dall'urbanıta' fischiante, mattonı dı terra e cısterne rosse spezzano l'ocra. Sotto ıl Krak des Chevalıers sono petalı dı rosa.
Le colonne dı Afamea finivano dopo duemila metrı dı cammıno. Cinquemıla anni fa era lo scempio dı Ebla. Il crepuscolo del mattino ha tınto dı rosa Palmyra.
Dentro ıl sacco solo qualche sapone dı Aleppo. Non una pietra, non un pugno dı sabbıa, nemmeno un dattero d'avanzo.
Cosi strana oggi la Turchia. Sembrava quasi dı essere tornati a casa.

martedì 8 settembre 2009

Dopo il gatto

L'aria fresca arriva al mio naso un giorno prima che sul resto di Marmaris. Non piove, ma l'estate scade anche qui, come a casa. Non è tempo di casa ancora. Anche se Firat sta per finire il lavoro al ristorante. Da un anno non fa ritorno a Mardin, duemila chilometri più a est. Dove sarà Amaia adesso forse. Dove vorrà andare Frederic. Non so cosa sarà del gatto. Lo porterei con me, ma dove? Il viaggio è un'incoscienza sorprendente.

lunedì 7 settembre 2009

sabato 5 settembre 2009

Anatolia appena

Torno al mare adesso, quello vero, ma nel cuore dell'Anatolia camminavo su acqua e terra di sale, vasta come un nuovo deserto di neve bruciante sulle caviglie, silenzioso e mite come un mare che non esiste.
Tuz Golu l'abbiamo trovato dopo cento chai e infiniti sorrisi. Anime disperse tra mattoni di fango, donne con gonne e pantaloni e turban avvolgenti e zappe alle mani. Uomini in ramazan fumano sigarette nascoste dentro locali per backgammon. Deserto di donne a Eskil. Ultimo porto prima del grande lago bianco. Pregano, ci dicono. Ma il loro ramazan dura un anno intero.
Amaia ha chiesto che fanno tutte quelle donne sedute coi bambini e le giovani all'ombra del caravanserraglio di Sultanhani. Salutano i figli militari che scompariranno per quindici mesi. E così io capisco l'assenza di un sorriso nell'immagine imprigionata dal mio obiettivo. Scatto foto e quelle riempiono una pagina del mio taccuino coi loro indirizzi di casa perché io non dimentichi di inviare questo ricordo di partenza.
I ragazzi vanno e salutano dove un tempo era il riposo del cammello. Almanak è dove l'animale stanco da nove ore di cammino appoggia le zampe e si conforta. Ogni quaranta chilometri i sultani selgiuchidi vollero un caravanserraglio, con moschea e ristoro gratuito per i viaggiatori sulla via della seta. Oggi i bus si portano via i ragazzi della campagna perchè diventino difensori di una patria.
L'aria si fa solitaria in breve.
Alla sera osserviamo nel freddo e sotto gocce di pioggia, i dervisci di Konya rotanti e persi nel turbine, ma il centro è in equilibrio. Il corpo vorticoso non si perde nella tangente.
Amaia ha gli occhi silenziosi. Un uomo accanto vestito di un nero elegante risponde alle preghiere sacre e forse ha un figlio fra i ruotanti. Lo abita l'aria nobile di chi ha un motivo per essere fiero.
I cappelli delle fate mi colgono perché il paesaggio prima è una pianura secca. La Cappadocia è un nuovo immobile turbine di comignoli in tufo sui quali si affaccia il nostro guardare. Eravamo aride e ora siamo fatte di punte rocciose, con finestrelle e porte e altari sacri appesi e infilati nella pietra.
Riposo nell'ultima chiesa d'inchiostro rosso. Un disegno di mille anni fa mi guarda mentre siedo sola con in tasca le chiavi dei monaci antichi.
Una giovane donna mi viene a cercare. Ma stavo solo scrivendo, immobile nel regno delle cose che non ci sono più e che la mia immaginazione così limitata non riesce a scorgere.
Sono seduta nel punto esatto in cui il mio guardare s'è fermato.
E' così impossibile il passato?

Un bus mi ha sequestrato per diciassette ore.
Marmaris è il quartiere solito al quale tornare perché un pezzo di viaggio è finito. Amaia è a est. Frederic ci sarà a breve. Domingo e Nuria a passare una febbre violenta fra i cocuzzoli di Goreme.
La puzza di gasolio mi riporta in barca.
Marea. Cosa fai? Mezzaluna, gatta nera, è tornata anche se la luna è piena?

giovedì 20 agosto 2009

Riporto


Ecco. Un'altra barca ancora. E' un continuo approdare da mirare senza fretta per noi che da due giorni abbiamo rapito un corpo morto dal fondale per farne casa. Il resto è l'arrivare degli altri. Quasi sembra di avere confidenza. Un luogo passeggero cui appartenere un po' di più degli altri. So qual'è il miglior fruttivendolo del centro storico e pur non facendone uso, quale il miglior macellaio: Luce, che mi presterà per quindici giorni una bicicletta, me l'ha garantito.
Un suonatore di darbuka lo troveremo. Ne abbiamo scoperto qualcuno spalancarci finestre di sogno e svegliarci dal troppo raki che a me pareva tanto reinsaporirmi di marsigliesi e compagne fidate in pomeriggi cagliaritani.
Mi fanno cenno dalla banchina. Ho un amico che comunica per versi complessi e grammatiche squilibrate. Sulla terrazza di un bar di Marmaris non so cosa sia la Turchia e percepisco un caldo invadente che palpita sullo sterno.
Ricordo tutti gli amici, non ho preferenze, tranne che nel momento preciso in cui la testa si poggia su uno o sull'altro viso. Ci sono centinaia di alberi maestri appesi come stecche di shangay contrapposte al cielo di un leggero violetto. E fra i vari c'è il nostro. A sventolare col guidone rosso in testa.
Non so cosa stessero dicendomi dal fondo. Belle notizie? Mezzaluna ha forse riattraversato la passerella e adesso dorme arrotolata, nera e pelosa al giardinetto di dritta, fra la manichetta e il cavo blu dell'ormeggio?
Il mare ci ha riportati alla linea d'arresto. Superata con bordi di bolina abbiamo stappato champagne con bolle larghe, dicono non dei migliori.
Di tutti i luoghi tornerei al sarcofago bizantino, non per morirci ma per restare fra scogli e geranei a guardare l'acqua marina immaginandola prato terrestre come mille anni fa. Ripasserei con Amedhye sulla cima del castello a scegliere fazzoletti e foulard che a casa non tornerò a indossare. Resterei a guardare la testa del molo mentre donne attrezzate di braccia larghe e danzanti e gonne al vento richiamano naviganti perchè la notte sia consumata nell'impalpabile silenzio del porticciolo cui appartengono per razza e generazione.
Non hanno magie da regalare fatta eccezione per una cucina di pesce e verdure e brevi terrazze di legno da cui affacciarsi tra fiori e rari avventori.
Avanza un territorio ignoto agli angoli degli approdi cui stiamo aggrappati.
Ogni altro affare non è affar nostro.
Io insisterei e non è detto che non l'abbia vinta prima o poi su ciò che mi avvince.

domenica 2 agosto 2009

Non chiedo a Bernardo Soares

Non voglio chiedere a Bernardo Soares cosa pensi del viaggio. Non voglio sentire risposta. Per fortuna è solo un immaginario disperato il suo. O è meno disperato del mio che spizzico vita al passaggio dei piedi lesti e sudati che indosso, davanti alla vita altrui, in un luogo non mio, in un viaggio reale di parole inventate?
Non chiedo a nessuno. Vedo vite scorrere e facce di un asiatico che non conoscevo tra le quali quella che mi presenta si confonde bene.
Sto spillando notizie da un mondo che può tranquillamente vivere senza il mio guardare.

sabato 1 agosto 2009

Fine delle campane

Abbiamo superato la barriera del suono. Cicale si affacciano sui lati delle montagne e spiccano di frastuono mentre noi passiamo le isole e dirigiamo sul fondo caldo della baia.
Dacta è un tavolo aperto sopra una piazza che sventola Ataturk. Selimiye ha le cime di poppa sopra ristoranti e un mercato di donne con occhi lunghi e gonne e verdura nuova da provare. Marmaris è il passeggìo notturno che riposa abbandonato ai sofà del mattino. Gocek ha solo due strade.
Il minareto non lo vedo. Devo cercarlo prima di pareggiare l'udito al senso degli occhi. Dicono sia registrato come le nostre campane ormai. Qualche sporadico canta ancora, ma è fato incontrarlo. Cose dell'interno, non più della costa abbagliata di luci e cianfrusaglie per turisti. Ma le campane non esistono e nessuno ne ha nostalgia.
Philippe è francese e ha dimenticato la Francia. Porta vino locale sulla tavola del nostro pozzetto. Cathy è canadese, viaggia sei mesi l'anno e stanotte dorme sulla barca affianco; beve della nostra birra che però è Efes. Ichnusa ne resta una bottiglia sola e non sappiamo ancora quando verrà la giusta occasione.
Tuycp mi porta dentro la moschea prima vestendomi di fazzoletto sul capo e gonna lunga e spogliandomi dei sandali greci. Gioca con le compagnette e si ferma, come addomesticata da precendenti incontri, davanti al mio obiettivo.
Firat continua a fare il cameriere nel piccolo ristorante di Marmaris, a servire piatti di melanzane, funghi, patate e riso; garantisce delizie e poi le serve su un piatto.
La cuoca è stanca. Siede sul gradino a cercarmi lo sguardo quando il mio già cercava il suo.
Ho camminato senza capire niente. Ho comprato borsellini rossi con luna e stella pensando di fare più mio un Paese sconosciuto. Ho contato i gatti di ogni angolo, ho confuso la coda di uno di loro per il ferro battuto di un tavolino. Ne ho confuso un altro per un borsa dimenticata su una pietra tombale.
Cecile vende argento e vuole ballare. Ho una darbuka che fa ballare anche i pochi cani che trovo. Tutti vogliono poggiarci le dita sopra. Occorre disciplinare gli arti e tamburellare non è un semplice movimento stizzoso. Certi turchi tamburellano benissimo, ma sono in pace.
Dietro il bancone mi parlano in lingua. Aspetto. Lascio che finiscano tutta l'incomprensibile frase. Poi chiedo se possono ripetere in italiano. Si scusano. Ci ritentano in inglese. Siamo mediterranei mi dicono. Non c'è niente di più simile a un turco di un italiano. Forse un sardo.
Sto lasciando nelle retrovie il meglio del mio pensiero. Non ho forza di tirarlo in coperta. L'aria bollente fa evaporare i concetti. Non c'è fortuna di vederli sgocciolare prima in parole.
Sono stanca di tanto stupore. Ho smesso lo stupore. Lo stupore è stupido a volte. Perchè dovrei amare un libro sacro sopra bambini che giocano e si lanciano rosari musulmani sui tappeti, anzichè il catechismo che Don Fenu ci impartiva nella sede di via Josto all'età di sette anni? Perchè dovrei snobbare i suoi sacramenti e sognare per un Corano altrui? Perché seni seuiyorum dovrebbe incantare più di I love you? Forse che si sprigioni più amore dalla forma delle singole lettere e dentro il loro mescolarsi?
E' suono. Come di cicale. Come di campane la domenica. Come di minareti al pomeriggio, alla sera e all'alba, ogni giorno, dopo i dj di Marmaris.
Philippe e Luce finirono il loro viaggio orizzontale a bordo del Pitawa-Ma e cominciarono quello verticale, scegliendo Turchia. Adesso c'è un motivo perchè dovremmo opporci a questo tipo di scelte? E c'è un motivo valido per confermarle?
Dov'è casa nostra? A quante miglia abbiamo lasciato l'abitudine dei nostri appuntamenti? In quanto tempo saremmo in grado di acquisirne di nuovi? E perchè mai poi?
L'ultima terra, poi c'è l'Europa. La differenza riposa stanca sulle panchine e porta fazzoletti in testa parlando ottomano. L'identità accetta euro e vende fazzoletti per tutti.
Non so cosa succeda più a est.

Sopra le sponde















venerdì 17 luglio 2009

Meltemi

Acqua. Chi vive sulle coste non lo chiama così. I greci hanno tanti modi per chiamare il mare, leggevo da Pedrag Matvejevic'. Hals per dire della salinità, della materia, dei granelli che ti scavano la pelle e ti lasciano rughe attorno agli occhi e crepe sulle mani. Pelagos per dire della distesa, della vastità che ti rende isolato, confortato solo sei sei ben disposto; usano pontos se parlano del viaggio, dell'attraversamento e colpos che è il golfo, il mare che abbraccia la terra, ché prima o poi a un riparo ci arrivi. Parlano di laitma se pensano alla profondità, alle mille castagnole scure che sembrano guardarti mentre tu stai sotto, in mezzo a loro e non hai respiro umano che sostenga il tuo vivere, ma solo aria di riserva, aria che tu hai preparato e di cui fai cambusa prima di calarti nel fondo per un istante breve che non può bastare per osservare tutto e capire se davvero i pesci stanno a guardarti.
E dicono thalassa se parlano dell'esperienza marina.
Acqua non è. Ma l'abbiamo presa. Perché ad agitare tutto era vento. Forte, da nord, mai placato, mai che si adeguasse lui alle vele, ma sempre noi alla sua intensità e direzione cangianti.
Vento da nord, termico, giocava a ping pong con le isole. Frizza da una e rimbalza sull'altra, torna indietro e rincara. Solletica e ricomincia.
Prendila così l'onda. Scavalcala adesso con la poppa del Marea e porta la prua verso il vento prima che sia quello a giocarti come biglia.
Non c'è un momento in duecento miglia filate in cui dici, è fatta, io riposo. Non c'è un'isola per cui dici, quella è casa.
Ma isole ne lasci a dritta e sinistra senza fermarle, senza chiedere un passaggio per la buonanotte.
Arrivi a Kithnos, arrivi su uno scoglio che scopri chiamarsi Dhenousa, vicino Skilonisi, che ti sei rotto di stare nell'acqua di quel tipo. Scallonisi, come dicono altrove. E invece no. Hai da ballare anche stanotte, che Meltemi, vento del nord sull'Egeno, non molla e raffica sulla tua testa come tu fossi erba e non da fumare, ma da smuovere e strappare e schiacciare verso meridione.
Tu passa l'Egeo e lui passa te.
Tu scopri un porto tranquillo dopo tre giorni e qualunque esso sia proverai beatitudine.
Scusa le parole schizzate. Ma l'acqua salata ha imbrattato gli ingranaggi. Rallentati, resi disfunzionali. E nonostante Kos, nonostante la medicina nasca sull'incrocio in cui hai appena ormeggiato, ecco che puoi ignorare Ippocrate ed Aesculapio, ecco che delle cure l'unica notevole sia un porto.
In cui stare, e sentire cicaleggio sulla banchina e dormirci sopra.
Ché l'acqua è cheta e Meltemi a ovest della Turchia, a fare ciò che vuole di altri.
Tu sei arrivato. Finisci lì.

domenica 12 luglio 2009

Storia veloce/2








E poi il rene buono di Atena si libera e la città finisce sotto ettolitri di pioggia. A spezzare quaranta gradi di afa e l'abbondante passeggiata litoranea che il pubblico sta concedendosi. Disegnavano traiettorie perpendicolari alla poppa. Avanti e indietro.
Quando il rischio di annegare s'è fatto forte la banchina è diventata deserta.
E poi il rene si svuota. Subito la prima coppia di fidanzati ha sfilato da sinistra verso destra davanti al pozzetto, nemmeno il tempo che si asciugasse il marciapiede. Come se non avessero mai smesso di camminare neanche sotto la pioggia, e poi eccoli di nuovo per nulla bagnati, mano nella mano. Più in là è tornata pure quella bambina, chè l'ho vista spesso, sempre a scaccolarsi con le dita piene di pallini verdi arrotolati fra l'indice e il pollice e qualcunaltro dimenticato sopra un'unghia.
Questo tempo secca il moccio e poi lo bagna ancora.
Adesso come se niente fosse.
Hanno ripreso tutti a scorrermi davanti, ignorando ch'io stia a guardarli. Hanno ripreso nelle lingue proprie. Le lingue umide, i vestiti freschi, i motorini, le biciclette, i rollerblade, le mani dietro la schiena, i piedi dei giovani neri accanto a tovaglie apparecchiate con occhiali da sole.
Hanno già smesso di vendere ombrelli. Ma poi non capisci mai dove li tengano nascosti e come possano farsi trovare pronti al momento del bisogno. Lesti come saette. Più rapidi di questa pisciazza di dea. Più funzionali di un rene divino.

Storia veloce

Vorrei una tastiera greca per fare come alle elementari, mix di segni grafici sconosciuti e suoni. Che poi è come inventarono i fenici. Per ora quasi tutto senza senso ma è bello giocare con codici che paiono svelarsi. Come formule magiche, poi una ragione (e un effetto) ce l'hanno.
Qui diventa rapido Theodorakis, s'impenna fra le corde e Zorba il greco sembra qualcosa di allegro. Ma poi, durante la musica al mercato di Monastiraki ragazzi neri coi sacchi bianchi carichi di cianfrusaglie da vendere, stanno correndo fra le vie strette. Corrono veloci, come Theodorakis, in fila indiana, s'infilano tra il carretto che vende collane e la zingara che promuove stoffe. E fuggono via perché c'è l'autorità. E sembra colore che corre, ma è destino da scampare.
Il cameriere di Plaka porta riso avvolto nella vite, ma è pieno di maiale. Ci guarda Atena dal suo tempio, mentre guide locali narrano di una inesorabile distruzione. Cronache di sfaceli, in tutte le lingue, per tutte le orecchie, per migliaia di nikon e di canon. Prendetela così, nelle vostre macchinette. Questa è la fotografia della fine. Questa è la parte terminale ma non finita di un crollo, del crollo di Atene che pure è fatta di spezie, di volti dai nasi allungati e occhi chiari, di cuoio, di che guevara e musica jamaicana, di albanesi che dicono "come estai?". Di strade grosse, di cemento che tutto ha coperto, di rocce che non cedono, di strade piccole, di coca cola e strade medie che fanno pensare a periferie californiane. Eppure bella. E forse brutta come dicevano. Ma stasera la vedo dalla cuccetta, e poi vado. Non è esaurita la città, ma il tempo per la nostra relazione.
Theodorakis resta a bordo.

mercoledì 8 luglio 2009

Stretti fra angoli e dei

Stretto è il canale che ci conduce all'altro mare. Sponde di terra che ricordano casa, di tufo e arenaria, alte e vicine, con ponti che sovrastano e braccia alzate che cercano il nostro saluto.
Siamo noi i naviganti. Andiamo verso l'altro lato, compiamo il nostro viaggio dentro la terra che fu confine invalicabile, termine imperfetto di un mare cieco e che oggi comunica invece con l'est. Oriente che ignoriamo. Egeo guarda il nostro arrivo.
E ci siamo. Il vento è da ovest, il genoa è una vela di prua appena più grande che ci conduce. Quattro miglia di iniziazione dentro un canale, me al timone, Arturo al timone, un fila di vele dietro la nostra. E dopo il pedaggio ecco l'Egeo che accoglie l'incedere. 38 miglia più a est arriva la visione.
L'Olimpo o ciò che ne fece leggenda non sovrasta Atene, la snobba appena, e noi lo inquadriamo alla perfezione dentro i nostri binocoli.
I marinai riposano bene stanotte. Dentro cuccette strette con cimitero di zanzare intorno. Ci aspetta la città. Ci illudiamo che lo stia facendo. Speriamo che non sia come Corinto che, prima del canale iniziatico, s'è mostrata città quadrata e speculare, fatta di strade che hanno parellele e perpendicolari infinite; città d'angoli, in cui l'angolo, il corner, è unico metro di misura di ogni spazio. Aiutato da qualche negozio di scarpe.
Dell'urbanità in cui ci troviamo stasera speriamo abbiano qualcosa da raccontarci gli dei.

martedì 30 giugno 2009

Al di là del tacco

Ci affacciamo sulla Grecia senza vederla ed io senza saperla.
Rotta su Zante domattina, isola di cui avevo ricordo vago per antologie di scuole superiori e di insegnanti di lettere che cambiavano ad ogni fine settembre.
Ultimi stralci d'Italia, perimetro finale sul lato dritto: si vedeva Capo Spartivento col vento al gran lasco e un gennaker che porta rigonfio come caramella sperlari.
Piccoli quartieri cittadini senza una città intorno, ma colli brulli e giallo castani, con suolo sabbioso. Che le case si affacciassero su di noi e sul mezzogiorno e non sull'entroterra, non potrei giurare. Forse si guardavano alle spalle. Perchè tutto era così fermo e indifferente. Cumuli di residenze abbandonati, se visti dalla prua del Marea a vele aperte. Come se quella periferia fosse termine concreto di un qualche concetto geografico appena orbo e proveniente da nord, e non centro di qualcosaltro.
L'abbiamo superato per fare rada dentro Capo Rizzuto il cui faro aveva da nascondersi dietro i lentischi invece di fare luce sulla nostra navigazione notturna e ventilata assai.
Infine Crotone. Che di amici calabri ne ho avuto a bizzeffe. "Di Crotone" dicevano. "Di Capo Rizzuto", "di Vibo Valentia". E io a ignorarne le posizioni cartografiche. L'altra sera invece ho visto un lungomare ingozzato di accenti noti con le c e le t moltiplicate. Con la seconda persona plurale inserita in ogni discorso a tu per tu, ma formale.
Accanto al Marea è arrivato di tutto. Americani e francesi, genovesi e polacchi. Naviganti con cose da dire. Con mari da prendere e altri passati da raccontare. In ogni lingua, in ogni inglese più sghimbescio, compreso il nostro.
In Grecia non mi basteranno le ripetizioni giocose sull'alfabeto di greco antico che il caro amico concedeva nell'umida residenza di Platamona tanti inverni fa. So dire Epolis e poi ricordo di una bimba di cui ricordo esattamente il nome, Maria Pantelidou, che fu mia amica all'età di 11 anni e mezzo, dentro una torrida estate svizzera. So perfettamente che viso avesse allora, che occhi e che color miele la capigliatura. Non so perchè mi restò impressa. Ma è li, appena giro l'angolo polveroso di un passato remoto, quell'incontro e persino la voce. Domani che vado in Grecia le dedico qualcosa. Tanto per dire che il mondo è circolare e che a volte se ne sta li a portata di mano, come per un dito il mappamondo. Basta un pensiero.

sabato 20 giugno 2009

Tropea

Il cursore del radar s'è fermato su Tropea. Dopo 130 miglia filate, viaggiate col giorno e con la notte, quando poi s'è acceso l'orizzonte delle luci da pesca e quello delle costellazioni. Una ce n'era che guardavo sulla prua quando attorno al mio turno di guardia c'era acqua e non molto altro. La testa dello Scorpione tiene nascosto ancora il triangolo di coda con cui punzecchia il resto del cielo a notte fonda.
Noi non viviamo con lo spumante. Non ci piace quello che abbiamo in frigo, per altro destinato a terzi. Non ci fanno impazzire le barche a motore. Guardiamo ogni scafo che entri nel porto, comprese le spadare che con gli alberi di oltre 40 metri, le lance lunghe per arpionare e gli uomini appesi sopra e sotto pronti a predare, provocano in noi un certo interesse.
Non voglio vedere un pesce spada appena arpionato, ma se lo trovo alla griglia lo digerisco bene. Non amo spumanti perche fanno frizzare lo stomaco. Ma al modo in cui lo fanno frizzare le birre gradisco piuttosto. Non ultimamente comunque, che mi tengo appena lontana dal luppolo e preferisco the freddo alla pesca con fette d'anguria.
Cipolle rosse ne ho avute oggi a pranzo in frittata. Sono famose da queste parti. Lo sapevano tutti ma non io. Suggeriscono di farne scorte abbondanti da rivendere in Grecia come afrodisiache.
Alla Grecia non posso di certo pensarci al momento. Si tratta di diversi mari più in là di questo. Sul quale tra l'altro non so per quanto tempo ne avrò.
La fretta non m'insegue affatto. Sul mondo messo in cronaca dai giornali, parenti lontani di cui avevo frequentazione, mi affaccio dal pozzetto ombreggiato del Marea. E nemmeno quello mi mette fretta. A vela si cammina anche a un nodo e mezzo (2 chilometri e 778 metri all'ora). Se ti viene fretta sei fottuto. Le barche a motore si esprimono con altre doti e non si tengono sbandate se il vento ha voglia di lavorare.
Per ora quello non lavora e noi facciamo il giusto. Ho levato una busta di plastica con cui l'elica del Marea aveva stretto amicizia, pulito il ponte e verniciato l'ancora. Ho percorso i bassi fondi dello scafo, attaccata alle catene di drenaggio, per liberarle dalla rumenta e non ho pensato di chiedere una mano al governo. Mi manca di insudiciarmi il mento con una granita alla fragola e penso che domani sera farò come il resto della massa italiaca, appresso a un maxi schermo che trasmette una diamine di partita di calcio con noccioline sopra.

martedì 16 giugno 2009

Apparati/3



così andiamo noi. e delle volte non ci facciamo mancare nemmeno le montagne

martedì 9 giugno 2009

Apparati/2

Apparati

domenica 31 maggio 2009

Nel calesse


Non so, ma credo che questo sia il più bel posto del mondo al momento. E Billy che dice No regrette! proprio come Edith che era un uccellino. E poi Let's do it! Lets fall in love! C'è una scotta che penzola e s'asciuga della pioggia del mattino, che era tutta un'altra cosa.
Ogni cosa al suo posto. C'è un coffee grinder che luccica e l'altro no. Un bambinetto che sfreccia sulla bicicletta sul molo. E io dentro un calesse. E vedo tutto, ma sono senza occhiali, così credo che il mondo non veda. Nascosta dietro un pollice, eppure che tutto si veda non fa paura. Ma tu lo sai che ti ho pensato? A te cantante delle corse di Bukowski e, a te cantante della Svezia cagliaritana, e a te che volevi andare per vela e t'hanno tirato un coso mancino. E al giardino algherese e a quello turritano. Dei costumi che a Turris oggi si son visti sulla strada maestra.
La vela maestra è gonfia d'acqua. Se la sgonfio mi bagno. Un'idiozia. Ma di acqua ne ho già presa per oggi.

giovedì 28 maggio 2009

Ciò che viene prima

La ventola del frigo che sfrigola è quel rumore che non si addice a una serata tranquilla in cui il tuo salotto è un porto. Ma diciamo che se la fermassi ne risentirebbero innanzitutto le birre, elementi, quelli, che invece si addicono molto ai momenti di fine corsa, o di pausa, o di stop. Per esempio quanto sarebbe diverso Arturo da ciò che è se al termine di un lungo giorno di strofinamento del ponte, non mi dicesse: "io credo, cara Roberta, che sia arrivato il momento. Tu credi che potremmo berci una birra?". L'accento tosco-campano rende ovviamente il tutto molto più credibile. E siccome lui non manca mai di chiedermi cosa credo a fine corsa e nemmeno di dirmi che lui crede nella birra defatigante, lui è lui. E io credo che un frigo, in tali occasioni, mi mancherebbe moltissimo. Anche se la ventola è più roba da retro di un ristorante che da dinette silenziosa dentro un porto a riposo.
Arturo e sua moglie sono tornati a casa. Al tavolo del carteggio non restano che dieci dita appollaiate sopra una tastiera (di cui quattro conserte mentre le altre fanno il lavoro). Io credo (certamente in tutte le birrette del mondo) che sarà difficile non dimenticare tante cose di quelle cose che stanno fuori una barca. Eppure una barca ti ricorda che non puoi dimenticare niente, nè tralasciare una pompa di sentina, nè la sagola del tendalino avvolta male, nè un parabordo lasciato nel gavone anzichè appeso alle draglie quando potrebbe mettersi vento. La barca ti dice solo di fare prima ciò che viene prima. E infine di aprire il frigo e stappare ciò che devi stappare.

lunedì 25 maggio 2009

Marea

Ormai sto quasi entrandoci in sintonia. Nemmeno mi scoraggio più con tutte quelle botte che prendo alle ginocchia, in testa e sui gomiti, chè la brandina dentro lo sgabuzzino di prua, fra lo strallo di trinchetta e la paratia, è davvero corta, ma c'ha un osteriggio grande così che appena verrà fuori ci vedrò una luna grossa. E alla fine, l'ho detto anche a Arturo, quella è la cuccetta più bella di tutto il Marea. Lividi quanti ne vuoi, comunque. E nel ginocchio destro ho già messo a seccare una bella sbucciatura procuratami con accorta strisciata durante una virata nei pressi del coffee grinder.
Poco femminile. E siccome La Spezia è piena di maschi ventenni coi capelli rasati e pure le donne adesso possono scegliere questa via militare, già in diversi casi mi hanno domandato se mi sono arruolata in marina.
Ma io? Posso io essere arruolata in marina? Che mi pare pure strano, perché comincio ad avere una certa età..e quando avevo 18 anni non era così scontato nemmeno il servizio civile e un mio amico si era persino finto gay per farsi riformare..Così quando mi chiedono se sono in marina, mi viene una faccia che sto appena imparando a contenere e che dice "Ma che vuole questo? in marina? ma perchè ti sembro un ragazzo che fa la leva?".
Poi oggi effettivamente sono finita a lavare le mutande sporche e le lenzuola nella lavanderia vicina all'Arsenale, dove vanno tutti i militari. Così quasi cominciavo a entrare nella parte. A sentirmi un po' Demi Moore. Volevo una santissima targhetta di quelle alla Maverik di Top Gun. Una targhetta da marines da lanciare in mezzo agli oceani quando non avrò più niente da rimpiangere. Non mi piacciono i codici militare e dunque potrei lanciare il cellulare, tanto è già quasi prassi.
Di sicuro però ci tengo ai marinai e alle storie dei loro viaggi. Mi piace questa idea, che siano militari o uomini di montagna scesi 50 anni fa sulla riva dei mari e sorpresi dai gelsomini di maggio e dall'odore di morchia dietro il primo angolo di porto.
Dal Marea se ne intravede qualcuno di questi marinai, di tanto in tanto.
La moltitudine invece, con titolo o meno, lucida gli yacht dal mattino presto e poi ricomincia a lucidare perché ha finito il primo giro e non sa più come riempire il tempo.

sabato 16 maggio 2009

Arrivi e partenze


Ciò che è pelagico prima o poi si spiaggia.
Da una parte o dall'altra delle coste del mondo bisogna pur arrivare.
Qualcosa come un milione di velelle ha scelto lo scoglio sotto casa mia come soluzione di continuità al mare aperto.
La bellezza di migliaia di alette issate come rande sopra un corpo mollusco è durata poco. Adesso queste naufraghe eterodirette dai venti, cozze senza guscio e del colore dei lapislazzuli, stanno tutte qui sotto, centinaia e centinaia morte a marcire.
Io sono un pesce nato sul bordo della terra, sul lato sbagliato. Divento pelagica d'estate. Isserò la vela maestra, andrò a spiaggiarmi da qualche parte, tenterò di non puzzare presso gli scogli di altri mari.

lunedì 4 maggio 2009

Il mondo beccheggia


C'è un dondolio continuo e discreto che non risparmia nemmeno la scrivania e il pc davanti. Dura da ieri, da quando ho lasciato Quisqueya all'ormeggio stanca e vincitrice. Per salvarmi dal becchegio e dal rollio sono costretta a salire a bordo di un'altra barca, subito. Non ci sono altre cure al malditerra. A meno di non sopportare il vuoto di un vento che ti ha agitato per 4 giorni e 180 miglia, soffiando da zero a 18 nodi e un uccellino affranto dal viaggio che si posa di notte sulla cima del timone, e resiste all'orza e alla poggia, spostandosi con le zampine sul cerchio di cuoio come facesse un balletto. Per qualche ora era lui lo skipper. Per fortuna stamattina c'era la nebbia. Così dal letto di casa ho perso le tracce del mio rientro. Una nave continuava ad avvisare la propria presenza in porto: 55 secondi di silenzio, 5 secondi di trombe, per due ore. Non era facile convincersi di non essere più nel cuore del mare, ma a casa. Non corrispondeva il silenzio delle drizze che avrei dovuto sentire sbattere all'albero maestro. Il tintinnio ci aveva portato da Alghero a Carloforte e ritorno. Alla fine ha salutato la nostra regata vincente.
Al momento niente è a posto. Solo il fatto che il mondo fuori continua a beccheggiare mentre il vento è tranquillo e il mare più distante.

domenica 26 aprile 2009

Mentre a est di Roma

Roma Palermo Mazara L'Aquila Alghero. Qualcosa che stride. Foto appese nel vuoto. Sezioni di vite scorte dalla strada. Macerie, treni, aerei, barche a vela che non camminano perché il vento è fermo. Roma come Tel Aviv, dicevano i due israeliani davanti a me a guardarla dal vagone. Roma ieri. Poi l'ho lasciata. E oggi, che la rivedo, è già un'altra cosa.
A cento chilometri comincia una visione aerea. Un elicottero sorvola il niente. Ci siamo noi sopra, con le cuffie nelle orecchie che ascoltiamo la geografia di un deragliamento. Il giovane della protezione civile vive 24 ore di fila, poi ne riposa 24, poi ne rivive 24 ancora. E così da 22 giorni. Casa non c'è più.
Casa non c'è ancora.
Sotto Punta Raisi batte la pioggia e qualche prostituta allo Zen.
Sopra gli inerti di Onna batte il sole.
Capo Caccia non ha ponente.
Le campagne del Mazàro inventano un silenzio di ruscelli e palmeti. Non c'è altro a parte un palazzo reale senza nome.
A ovest del Tevere rettangoli celesti in mezzo a boschi eleganti: la Cassia si riconosce per le ville con piscina.
Molto più a est del Tevere, Coppito pulsa di un ticchettio infinito di tastiere. "Non c'è nulla che potrà salvarci". Non c'è nulla. Più.
Sul lato opposto la zolla isolata è ferma.
Casa non l'ho vista, non la cerco. Aspettavo un po' di vento ma non ho finito di farlo.

domenica 19 aprile 2009

Il re e il maniscalco

Il re conobbe il giovane maniscalco. "Tu ami i cavalli in un modo che mi piace" gli disse seduto sul suo trono di velluto rosso, sorseggiando un fresco intruglio di mirtilli e menta.
"Sono lieto sire, della simpatia che mi riconoscete" rispose il maniscalco con gli occhi luccicanti, le mani raccolte e un po' di sudore sulle tempie.
"Verrai a stare qui e ti occuperai delle stalle imperiali" concesse il re.
"Dunque mi assumete presso la vostra corte maestà. E' una bellissima notizia, grazie di cuore" fece il ragazzo vestito di stoffe consunte.
"Maniscalco - lo incappiò il re - io non ho detto che ti assumo. Tu avrai modo di prenderti cura degli stalloni e dei puledri delle tenute regali, potrai provare i tuoi ferri sugli zoccoli dei miei purosangue, ti concederò di montarli e di accompagnarmi nelle cavalcate di corte. Crescerai in esperienza e un giorno forse potrai guadagnare degnamente dal tuo lavoro. Fino ad allora tu mi sarai debitore. Questa è una grande occasione per te e dovrebbe bastarti" sentenziò il re rifuggendo abilmente ogni remora morale.
"Maestà, sono onorato della fiducia che concedete di riporre sulla mia persona, ma con tutto rispetto sire, vi prego di non confondere la grande passione che nutro per i cavalli con la possibilità di riconoscermi meno del dovuto".
Il re, colto da una sfrontatezza che non s'aspettava simulò una risata nervosa: "Prendi i tuoi attrezzi maniscalco e portali altrove. Stavo per concederti l'accesso al paradiso, ma mi sbagliavo. La tua arroganza ti vedrà povero e servo per tutta la vita".
Poi chiamò la guardia reale e fece allontanare il giovane maniscalco.

sabato 18 aprile 2009

L'esigenza di partire

C'è il mare che brulica di pioggia. Sembra mosso da formiche impegnate ogni ora mentre noi guardiamo. C'è una canoa al largo che deve scappare perché l'acqua marina è piana, ma quella piovana perpendicolare e tagliente. C'è una barca che deve far rotta verso Alghero con una certa fretta. Quindi la cerata è pronta, il gatto resta a casa, il cane teme i tuoni e vorrebbe occupare il sotto del letto, magari piazziamo lo spi e facciamo prima. Magari arriviamo stanotte e non ci saranno stelle a brulicare il cielo che intanto non si leva la coperta di nuvole.

martedì 14 aprile 2009

Il tarlo del calzino



Come raccontavo all'amico prodiere, tutto ha inizio da un calzino. Uno qualunque di quelli a righe che avevi al piede fino alla notte prima e che poi hai ritrovato in terra al mattino pensando "più tardi lo raccolgo". Passa un'ora e non l'hai raccolto, ne passano cinque e il calzino giace ancora sul pavimento accanto al letto. La sera, prima di andare a dormire, penserai che non succede niente se gliene lanci altri due affianco, ché in fondo è il pavimento il luogo in cui devono morire i calzini dopo averli consumati dentro le scarpe. Quindi li lanci e il giorno dopo a terra ne conti tre. E' finita: la casa che avevi pulito e ordinato con fatica e ore di tempo libero è sulla via della rovina. Il tarlo del caos è cominciato. E non riuscirai a fermarlo prima di molti e molti giorni, quando di calzini sul pavimento se ne saranno accumulati dieci, sedici, e in più ci saranno slip e magliette, scarpe da vela e stivali di camoscio, jeans da lavare e fazzoletti accartocciati sulle scrivanie, canestrelli sulla tovaglia e tirabushon accanto a bottiglie vuote, tazzine di caffè ferme a bordo tastiera, mollette per capelli e forbici fuori posto, agende e taccuini, fogli sparsi e ricette mediche, appunti comunali e carte nautiche, mappe petrolchimiche e guantini per randisti. Infine mettici un gatto.
Un gatto nuovo nuovo che ti hanno prestato per vacanze in angloterre. E metti che a quel gatto il caos piaccia parecchio e ami l'idea di svilupparlo e sviscerarlo fino all'ultima sua componente più depravata. Troverai il gatto nell'armadio al posto delle scarpe che stanno fuori, troverai il gatto sul comò al posto del libro steso sul letto. Troverai il gatto e non lo troverai più perché si nasconde dentro il vortice del disordine.
Fuori invece ha smesso di ventilare. Fuori è tutto pulito. Il mare è piatto, la torre della Pelosa è ritta, il turchese è disteso senza scapigliature, una vela sbandata con lo scafo giallo ci corre sopra e non fa grinze. Ogni cosa è al suo posto. Manco solo io che per rimettere pace fra le cose m'infilo dentro il mare ghiacciato mentre improvviso una rana col costume rosso. Così ieri è cominciata la stagione del tepore ed era tutto di un ordine perfetto.

domenica 5 aprile 2009

Come indossare il lavoro che si è



Ho i guantini. I primi della mia vita e credo che se non starò alla randa continuerò a non usarli. La puntata a Roma è servita anche per questo: fare incetta da Decathlon di abbigliamento da velista. Perché quello proprio mi mancava. Spesso arrivano in barca maricoli per caso, che drizze e scotte ci mettono un po' prima di individuarle. Però vestiti di tutto punto, con il marchio Slam che emerge dai petti e veste bene il didietro.
E io questa cosa dell'abito l'ho sempre messa in secondo piano. In tutti i ruoli. E ancora resto ai margini, con qualche cosa di vero, con qualche simil marca e con qualche pezza rattoppata.
Ma prima sbagliavo. L'abito fa tanto. Ti aiuta quando la sostanza è più in là, ancora da venire. Se dovessi aspettare a quando quella è tutta pronta ed erudita, ci impiegherei un secolo a mettere l'abito giusto nelle occasioni opportune. E invece no. Bisogna sapere cosa richiede la forma prima di infilarsi dentro una qualsiasi sostanza. E in qualche modo adattarsi. Perché chi sta intorno coglie informazioni da ciò che vede. E questo produce relazioni differenti.
Cosa avrei pensato la prima volta se il docente che seguiva la mia tesi di laurea l'avessi trovato ogni giorno dietro la scrivania in tuta da ginnastica? Forse ciò che pensavo quando la Demartini, la professoressa di ginnastica delle medie, arrivava ogni giorno in palestra con calze a rete e tacchi a spillo. La fiducia sul fatto che avrebbe potuto insegnarmi qualcosa di ginnico era scaduta al primo giorno.
Una volta un sindacalista si rifiutò di darmi delle informazioni per il giornale perché avevo i dreadlock e una camicetta indiana. Un vero stronzo. Negli anni continuerò a darmi ragione, ma quella volta andò così e non si può far finta di non sapere che c'è sempre un filtro fra ciò che siamo e ciò che il resto del mondo pensa che siamo. L'abito aiuta in questo. Anche se a volte ci frega alla grande.

domenica 22 marzo 2009

L'abito del vento

Di cose ventose ne ho sentite in questi giorni. Pressato dal greco al maestro l'equipaggio, nuovo alla navigazione, solo poche volte s'è fatto prendere da sconforto. L'entusiasmo ha stretto le mani, attorcigliato cime su verricelli opachi di sale, impastato genoa agli stralli in cappe filanti inattese. A volte ci ha aperto in farfalle e ali spiegate e dato la voglia di guardare negli occhi degli altri per restituirci in virata una domanda: "ora siamo in mezzo alle onde, ma cosa fai tu nella vita normale?".
A poche cose abbiamo risposto. Quelle più essenziali. Poiché contavano meglio le onde a dire qualcosa sui nostri difetti e sulle nostre virtù.
E non è nemmeno sempre stato entusiasmo ciò che ha condito lo stare insieme, stretti in un pozzetto ventilato, per tre giorni. Gente sconosciuta.
Gesuino, coi capelli bianchi, ora lo so chi è, mentre lo guardo mangiare filetti di salmone e gnocchetti con ragù di melanzane e pesce spada, in forchette eleganti e tovaglioli sui grembi; ma non lo sapevo mentre gli urlavo "nooooooo! non toccare la marcia. Guai a te!". In quel momento non era altro che un'iniziativa sbagliata presa in un momento nero. A tavola ogni documento d'identità personale tornava ad avere il senso di sempre. Tu sei questo, fai questo lavoro, sei il capo di un'azienda importante, sei il dirigente di una società carbonara. E io non un conducente specifico, ma una riccioletta dalle molte attività.
Assaporiamo del vino adesso e ogni viso è diverso da quello con cui avevo interagito sotto una randa mai troppo ben regolata. Nella grande sala di un hotel imperatore che s'affaccia sul mare di Alghero ogni corpo ha già assunto un'altra forma. A vestirci ora è l'abito comune, quello che avrei conosciuto per primo, se non ci fossero stati di mezzo il vento e una barca nuova da condurre.

sabato 14 marzo 2009

Fiera del lavoro

Curriculum alla mano. Chi sei, cosa sai fare? la maggior parte della gente non lo sa. Lascia cv ovunque. A volte non guarda, non parla. non ha tempo da perdere. non vuole perdere nessuna occasione. nessuno stand. Vuoi fare il fotografo. Hai esperienza di fotografia? Sai fare foto? Bè, si..Io scatto foto in continuazione, a tutti, a mia sorellina, a mio zio, al cane, ai marciapiedi, alle nuvole che ho nella testa. Hai una macchina fotografica? Bè, si..ho il cellulare. Faccio foto sempre, tutti mi dicono che sono pazzo; ma quant'è la paga? posso lasciare il curriculum?
Sapresti gestire una fotocamera reflex? E' naturale
Esposizione, tempi, diaframmi? Dipende
Profondità di campo? Stringo gli occhi
Se vuoi fotografare un soggetto in movimento come agisci? Lo inseguo.

sabato 7 marzo 2009

La differenza

C'è una bella differenza fra tutto ciò che ti interesserebbe scrivere e quello che realmente riesci a scrivere. E lo scrive una che in questo momento ha seria difficoltà a scrivere. E tutto ciò che scrivo si compone perché proprio vorrei, ma ci sono mille cancella e rifai, bè non mille ma almeno venti in 100 battute che digito
Per esempio un attimo fa nella veranda che Antonio avrebbe tranquillamente trasformato in un cesso
io non cedo
non posso far diventare la mia veranda un cesso
a meno che io non tenga particolarmente ad avere un cesso con la luna che guarda mentre cessi
no, io una veranda la voglio per notare le differenze
e ho scoperto poco fa che c'è una bella differenza fra l'essere guardati dalla luna e non esserlo
e la differenza è che se la luna ti guarda tu puoi immaginare di essere visto dalla luna
cioè, puoi pensarti visto da lassù come una volta facemmo
io dalla luna di murtas artas e quell'altro dalla luna della valle
ed entrambi ci trovammo sulla luna senza saperlo
e un'altra differenza è capire cosa stiamo facendo del nostro tempo e non capirlo
io scrivo a quello per dirgli che non sto combinando nulla
ma vorrei sapere secondo lui cosa sto facendo
e un'altra differenza ancora è quella che passa fra la vita del corpo e quella della mente
Il mio corpo rutta l'alimentazione
e rutta i liquidi
e rutta tutto ciò che ingerisco per portare la testa al punto in cui è
poi la mente fa altro
è come un cane al guinzaglio che crede di essere libero
come Ivalù che schizza via dal cancelletto azzurro
ma poi una fettuccia rossa lo tiene legato al dovere
schizza ma un cavo lo riporta indietro
lo strozza altrimenti
Ecco il mio animo che vagherebbe altrimenti
e che invece deve restare legato
altrimenti fugge
e si perde
il mio corpo rutta l'aglio
e la cipolla
rutta il nutrimento
che poi in questi casi è routine
è tutto un controsenso
regalo molte crochette all'esofago per far cantare la laringe
mi appesantisco per volare
per confessare le mie scoperte
e poi, si volo
ma ho mani troppo pesanti e goffe per farmi il segno della croce

(la notte prima)

giovedì 5 marzo 2009

Surfando sulle tre R



Da un po' vado a piedi santificando la filosofia delle tre R, risparmio rassodo e rispetto l'ambiente.
Ma poi in giro per le vie ho saltato la grandine per un soffio e affianco a un cassonetto ho trovato una piccola tavola da surf. Perfect beach. Perfetta per me.

mercoledì 4 marzo 2009

Le omelette di Teresa

Teresa aveva un sogno. Spicciarsi coi seni. Diventare matura. Indossare in effetti i tacchi di mamma. Con gli occhi stretti camminava sui tetti a pregare le nuvole. Se parlava al serpente gli diceva di arrotolarsi e starci tutto dentro la borsa. Lo avrebbe portato con sé, in piazza la domenica, al catechismo, in mezzo alle ore di scuola. Se parlava al pino era per dirgli degli aghi, che erano troppo pungenti e come mai avesse scelto le spine al fatto di essere fiore. Teresa se ne stava con le punte dei piedi sopra il nord della rosa dei venti fatta di sassi e cementata in giardino. Aveva due uova in tasca e le avrebbe vendute al primo arrivato. O ne avrebbe fatto omelette. Cercando Teresa chissà cosa si trova. Forse due uova, forse un serpente, forse due aghi di pino.
Oggi non c'era un sogno che andasse bene. E ho preso la frittata di un altro.

mercoledì 25 febbraio 2009

Trova Giolzi e uccidilo



Ziu Antoni sa come farsi rispettare. Qualche anno fa un'amica gli portò in cantina due orgosolesi, due balenteddi che, vabbè su Carrasegare Osinco, però noi non ci facciamo prendere per il culo da nessuno. E questi erano proprio due balenteddusu che dicevano "dammi la malvasia" e ziu Antoni semmai te la deve offrire lui la malvasia, non che gliela chiedi così spocchioso. Per esempio noi ora stiamo bevendo la malvasia di ziu Antoni e gliene siamo grati perché è buona proprio. E quasi quasi gliene chiederei ancora ma non voglio fare la fine dei due orgosolesi che ci sono usciti più lontani del crasto, dice lui. Aspetto che il bicchiere si riempia di nuovo perché così va la festa. E se non hai troppa smania Bosa non ti fa aspettare mai troppo.
Nella cantina precedente stavamo ballando "batti in aria le mani" e "tintarella di luna". Dieci minuti che sono diventati quattro ore, prima dell'inversione che dal nero lamento di chi ti cerca una tetta per allattare il bambino abbandonato, si rimaschera del bianco fantasma per cercare Giolzi e farlo fuori.
Ci hanno cercato fra le gambe Giolzi almeno dieci volte e Ciappadu! Ciappadu! i lenzuoli bianchi lo hanno bruciato la notte in mezzo alla piazza, che il Carnevale si nasconde nel tuo sesso ma il Carnevale è morto, è morto e tu stai ballando sulle sue ceneri.
Fuori dai portoni di Bosa medievale i banchetti non fanno fatica a cumbitare.
Se vuoi un'oliva prendila, se non la vuoi prendila ugualmente. Se vuoi vino rosso non chiederlo e ne avrai in abbondanza. Se vuoi capire di che si tratta, cos'è tutto questo nero e questi bambolotti fra le braccia, dentro le carrozzine, appesi sugli scialli neri di uomini vestiti da ziedde, puoi chiedere, ma non capirai. Se non ti parleranno di Dioniso troverai comunque l'orgiastico.
Niente di scandaloso, ma vorranno infilarti una lampada di carta fra le cosce.
Giolzi! Giolzi! esci dalle vagine! Giolzi! Giolzi! La mamma è scappata, s'attitidu è cominciato, su lamentu, su lamentu. Mattina. Sera. Bevi, bevi. Mangia, mangia. Balla. Qui non è come a Mamoiada dice il ragazzo che apre la cantina ogni anno per tutti. Che va in giro col bambolotto da quando ha due anni. Io qui ti cumbito. Che poi è una sfida. Che poi non potrei non farlo. Lo faccio per la comunità. Lo faccio per te. Lo faccio per il carnevale. E Giolzi è morto adesso. Muore sempre, ma io no.

Urbanità



è un audiovisivo. pigiare sulla foto e ciao

mercoledì 18 febbraio 2009

Cara pintada

Non incrocerò le dita perché l'ultima volta che l'ho fatto il mondo in mia assenza s'è disciolto in un bicchier d'acqua con molta medicina, di quella cattiva, e s'è bevuto l'occasione di farsi del bene. Dunque, visto che non abbiamo amore per le piccole cose, e non c'è niente oltre alla volontà stessa che sia capace di creare destino, farò a meno del rito apotropaico e lascerò i miei arti slegati. Avrò bisogno di una mente e di un corpo che lavorano, non solo di un'anima che spera.
Sull'autobus del ritorno eravamo in cinquanta. I Pirenei con tre ciuffi bianchi ci guardavano strisciare lungo la valle. Una donna dalle braccia flaccide e il sospiro inglese dormiva accanto al mio gomito e non si curava del ritorno per casa. Dieci piloti d'aereo ci avrebbero trasportati ognuno verso relative geografie. L'uomo sul sedile più avanti col cellulare in mano progettava in napoletano di prendere nuove licenze a Bari e in Calabria. Il gruppo di spagnoli in fondo si chiedeva come sarebbe stata la Sardegna. A me non restava che appuntare dettagli insignificanti su un taccuino nero che sogno inutilmente di riempire con parole sorprendenti. Ma che ci posso fare se mi sorprende ciò che potrebbe non avere qualcosa di speciale?
Le vite a caso. Una qualunque, dietro ogni finestra che si affaccia sulla via d'uscita e d'ingresso dalla grande città, per ogni balcone una, sei storie, destini che si compiono. Una comida, qualcuno ciarlare, piange l'incompreso, qualcuno dà tinta a una parete, sbuffare, fatiche da compiere. Niente suggerisce che il viaggio è finito.
Io sbevazzo tomando gocce di algarrobo per un posto nel mondo che sia mio.
Se lo spirito è già in volo, quando il corpo sarà arrivato quale sedia starò occupando? Chi occuperà me?
Prima della partenza ho distribuito dolci alla crema mescolando ingredienti che si ignoravano, disposti su scaffali lontani, prima del mio arrivo.
Con le fruste ho zuccherato il mattino.
Ho visto giapponesi scattare foto e asiatici di altri dove servire caffè ai tavoli della piazza. Cileni sposarsi con europei per un permesso di soggiorno e giovani neri trasportare ventiquattrore dentro le metropolitane. Guardavo le traiettorie degli altri incrociarsi con le mie, e la traiettoria degli occhi delinearsi parallela alla strada giusto all'altezza di Barcellona che passa, vestita di ogni lingua del mondo e con la cara pintada. Ho strisciato fra vie gotiche inseguendo cinquecento tamburi di Sant'Eulalia incontrati dietro un ristorante indiano, ho sposato il cuore coi battere e i levare.
Ogni passo sta bene se aggancia un ritmo. E' un destino che scegli e che mescoli con mille altri. Non c'è il tempo per pentirsi, per restare indecisi. E' ciò che volevi.

martedì 10 febbraio 2009

Le vie di sempre

Ho i capelli pieni di città. Le orecchie metropolitane. I passi capitali. Tutto uguale tranne il resto. Sconosciuta sulle strade vecchie mi trascino, ma ogni cosa è nota. Come alla partenza. Come se ogni semaforo fosse rimasto a picchettare il mio avanzare senza sentire mai l'assenza, fiducioso di ritrovarmi, o spudoratamente menefreghista. Cosa è via merulana se non la via del 16? Via cairoli, via di conte verde, via dello statuto, il mercato di via sannio, il gradino davanti alla tomba dei papi dove sta il rumeno col suo sax, il sedile di marmo davanti ai pittori di facce gitanti.. Cosa, se non la visione impolverata sopra cui oggi passo un panno umido di umori riavuti dal tempo?

venerdì 6 febbraio 2009

Retoriche

non puoi perdere il concetto
devi scrivere per te
esattamente come ora
esattamente per necessità
se la tastiera sta sotto le dita, alle dita riversare impulsi che compongano versi
intrecciare non accartocciare
Carnevale
maschere svelarsi
danzare con abito di scena
confidare nudi
Prendevamo frasi a rilanciarcele addosso
sfidavamo il mondo a sinestesie
Senza saperlo quante ce n'erano. Di retoriche sgocciolanti le parole
e ora dovrei andare a lumache
scusate
la pioggia è smessa è tempo di sguisciare
e io andrei a cercare sinestesie in mezzo alle foglie
e mentre mi muovo sull'erba, e sono lumaca, comincio a venir verso il cielo cantando come tagliassi cotone
intonando versi ai crasti, (come dico? ai crasti? ai crasti si, mi ricordano qualcuno)
compiendo anadiplosi col blues
ma per mio gioco parlare degli innamoramenti infiniti e brevi
delle cartelle di sogni scambiate
del giro d'accordi fatto per bene
e inviare

lunedì 2 febbraio 2009

Antichità all'asta


La signora col naso adunco sta seduta in terza fila. Ha già sollevato il dito tre volte e per tre volte ha comprato. L'astatore ha battuto ancora il martello sul bancone e ogni volta Amalia ha un fremito, come di vetri infranti. La vetrinetta Compagnia delle Indie è presa. "280 euro, signori! Come regalarla! 300! Già non è più mia! 300 e 1, 300 e 2...non so se capite signori..qui è il restauratore antico che vi parla. Mio padre era restauratore, mio nonno era restauratore, mio bisnonno era restauratore in Francia..Mio figlio? no, lui vi ha preparato degli ottimi tramezzini. Ma qui io vi sto facendo regali. Solo per rimetterla a posto ci son voluti tre giorni. Questa vetrina potete metterla anche in bagno. Ormai si usa pure così. Chi l'ha detto che in bagno non ci sta un pezzo d'antiquariato? E se non vi basta il bagno chiedete spazio al vostro vicino. 350! Certo...lo capite bene che è un affare da non perdere. 350 e 1, 350 e 2...Basta così? 400! Ecco, signora non è più sua, ha alzato la mano un altro signore. Allora 400 e 1, 400 e 2... E 1 e 2.." SBANG! Amalia si scuote. "Aggiudicato!".
Passa una bionda col culo ben fasciato: "Avete qualche richiesta signore?". Nessuna richiesta grazie. Io sono qui per guardare. Per fare un viaggio a gratis e a ritroso, tra gli scaffali del passato. A frugare tra le storie che non so. A saltare dentro un lavabo e lavarmi i piedi assieme al mio bisnonno.
Certo, un bel porta-cd in noce del 1800 lo userei senz'altro in casa mia. Son cose preziose. Specialmente il pensiero che duecento anni fa, svuotato di cd, quello scaffale se ne stava nella casa di qualcun'altro a guardare corpi che non esistono più muoversi e parlare in salotto degli argomenti del loro tempo. Che so, dei successi appena riportati da Napoleone, o del raccolto di patate, o dell'abito che una Telma qualunque ha finito di confezionare per Gilbert il quale adesso ha finalmente un gilet da indossare per uscire con Celine.
Se quel mobile stava li e ora sta davanti a me, lui incolume dalle stagioni, io presa dal maldischiena, sarà quasi come vedere la piega della bocca di Billie Holiday mentre canta con Lester Young che fuma una sigaretta e suona il sax su youtube.
Epicureo l'astatore sta presentando un'altra specchiera, foglia oro, tutta lavorata a mano, fine '800. Brutta, mamma mia, però la vogliono in tanti.
Il punto è: se la specchiera avesse un hard disk e avesse conservato le immagini di tutti coloro che in 200 anni si sono guardati la dentro, come sarebbe il confronto? E la signora dal naso adunco in terza fila che sta facendo manbassa di antichità troverebbe una più adunca di lei, magari col vestito lungo a bomboniera, l'aria borghese, i capelli raccolti e un pensiero malvagio conficcato fra le sopraciglia e la fronte?
Epicureo è passato ai servizi in Sheffield che per me e anche per Amalia sono troppo lucidi: non però per l'artigiano di quel paese in mezzo a sette colline nel cuore dell'Inghilterra che nel 1747 univa una lastra di rame e una di argento e fondendoli otteneva una nuova lega. Secondo me né la signora in terza fila, né quella col cappotto e gli occhiali da sole dietro Amalia sanno minimamente dell'artigiano. Epperò alzano la mano ed Epicureo schiaccia forte la polvere col martello e ad Amalia ancora una volta sta per venirle un colpo.
C'è un Biedermeier in fondo alla sala. Questo secretaire nato dalle sorti di un periodo bislacco per gli austriaci vissuti ai tempi del congresso di Vienna che noi tutti abbiamo studiato in quarta o quinta elementare, piace a un signore e a sua moglie. Ad Amalia non piace, ma a parte come si scrive ("bidemeier?"), sa tutto di quello stile. La coppia ha proprio deciso. Il biedermeier sbarcherà nel loro salotto. "900 euro! A questo prezzo non lo trovate nemmeno su ebay signori e signore! Ecco laggiù: 950! 950 e 1, 950 e 2... 1000!" Lo vuole anche qualcunaltro. Sinceramente non condivido, ma chissà dove se lo metteranno questo secretaire.."1000 e 1, 1000 e 2..." L'astatore va avanti con la sua conta, la coppia non si lascia sopraffare dal dubbio, l'uomo solleva un dito: "1050!" brilla Epicureo, e subito dopo: "1100 euro signori!": è l'effetto del dito di un altro. Ma la coppia non cede. E se l'aggiudica...SBANG!..per 1150 euro.
Amalia è eccitata. Quanti anni è che non andava a un'asta? Oltre quindici. Un tempo l'adrenalina le saliva così tanto che a un certo punto non era più in grado di distinguere il bello dal brutto. Una specie di foga da giocatrice d'azzardo. E a casa poi si portava di tutto. Per fortuna il livello del suo buongusto è talmente al di sopra della media che anche ciò che in fin dei conti, a riguardarlo col senno di poi, non avrebbe mai comperato, risultava comunque un bell'oggetto.
Ora sta li sulla sedia. Vorrebbe comprare qualcosa, a dispetto delle decine di scatole e scatoloni in garage che conservano ogni genere di antichità e rigatterie e che di casa in casa si è trascinata nel tempo. Sa, per questo, che non avrebbe senso comprare ancora. E poi le cose più belle le ha viste al piano di sotto, nel magazzino polveroso dove Epicureo tiene il meglio. Trumot, vecchie credenze in legno stagionato, frattini, ruote di carro, una sedia da barbiere, uno piccolo specchio girevole col cofanetto dipinto di un rosso maturo. E' così morbido e pulito il suo gusto, così raffinato eppure rude. Poggia l'occhio dove la delicatezza di un pensiero fa il resto. E' un gusto sincero, arrotondato dal tempo ma anche ritto per l'acume della mano artigiana.
I salotti di Amalia hanno incantato generazioni di gatti ed esseri umani.
Nulla a che vedere con il dito sollevato della signora col naso adunco.
Alla fine il martello batterà un colpo forte anche per lei. SBANG! Si porta a casa una vecchia macchina da cucire a manovella perfettamente funzionante. Prima di acquistarla Amalia chiede alla ragazza bionda di che marca sia. La donna col cappotto seduta dietro di lei esclama senza nemmeno guardare: "Ma è una Singer signora!". Ha parlato senza cognizione. Ha parlato per convenzione. Perché le macchine da cucire di una volta, per il senso comune, sono necessariamente Singer. E invece no. Questa ha una marca sconosciuta in madreperla, talmente stretta che nemmeno si legge. Già se la sta cullando con gli occhi Amalia, il pezzo è raro, l'affare è fatto.
Epicureo ha convinto tutti. Dopo Pasqua smetterà con la stagione delle aste e forse anche con quella del restauratore. L'antichità, come la chimica, come il mercato del gas, è dentro la crisi. Fra 30 anni nei nostri salotti non resterà più niente delle chiacchiere su Napoleone o dei gilet nuovi di Gilbert.
Qualche signora col naso adunco mostrerà trofei senz'anima.
Amalia avrà pensato invece di non fargliela mancare mai, anche a costo di inventargliela lei. I suoi oggetti se ne staranno li come ballerini del passato immortalati dentro un sipario di ricordi, dentro una bottiglia che suona a carillon. Ogni pezzo un racconto. Ogni racconto un giro di carillon. E fra duecento anni suonerà ancora.