domenica 18 ottobre 2009

Exit door

Non c'e' aria, solo pioggia e Istanbul non tiene. Un altro viaggiatore entra all'ostello, c'e' posto, ormai abbiamo tempo per tutto, anche per dimenticare l'Aya Sofia e la moschea blu. Orde di francesi banchettavano fra loro, un altro buenasdias senorita como estas? un altra mattina ad aspettare i ricordi sulla panchina piu' inutile di tutte. Il corno d'oro e' zeppo di pescatori anche alle due del mattino. Il mondo arriva in citta' e s'illude d'Oriente, raro chi usa questa porta per uscire. Il mercato di Kadıkoy suggerisce l'Anatolia, ma il Bosforo e' una menzogna e la maratona dei due continenti non parla kurdo, ignora i falafel di Aleppo, non sa di polvere ne' di dischı di pane stesi sui marciapiedi sporchi, non indossa il burka, non serve çay, non canta con la voce dei minareti. L'ultimo e' stato all'una. A Safranbolu fu una stella cadente ad ınterrompere la luce e una nuda gola a richiamare la preghiera. Quando sara' il prossimo muezzin?

sabato 10 ottobre 2009

Sinope


A Sinop non c'entro nulla. Cosi mi piace rimanere. Nella cıtta' in cui Diogene nacque e comincio' a cercare l'uomo, io trovo un caffe' delle Amazzoni sdoganate da turban e veli d'Islam. Impilano tessere di okey takimi e l'unico uomo del locale serve çay in silenzio. Un cane bianco continuo a vederlo ogni volta che salgo su un autobus. Un nano spunta da una bassa porticina all'angolo buio della strada, come ieri. Nessuno che parli una lingua conosciuta.

martedì 6 ottobre 2009

Pance kurde

Ecco, e' arrivato l'ennesımo çay della giornata. Si perde pensiero dietro la baruffa di Van, ricoperto di polvere fra orde di kurdi che calpestano. Tacchi, passeggini, carrozzine, scarpe di uomo con punte sollevate all'ınsu', calpestano ancora tutti insieme, come soldati impazziti al richiamo dı guerra, pezzi di strada urbana che pero' sono trincee, non marciapiedi. E laggiu' un lago in sogno che sfugge stanotte sulla moquette dell'ultimo bus, che' il tempo si e' fatto chissa come maturo e attende solo il mare nero. Alle spalle anche la porta dı Tatvan. Un albergo qualunque, tanto per essere pronti domani, ma c'e' Hasan al desk che non aspetta nıente altro. Welcome ın Kurdistan! Perche' noi non abbiamo una terra? Le teste mozzate dı kurdi sono immagini degli anni '80 e arrıvano alla pancia in un moderno istante. San Marino, Monaco, cosi pochi ma con una terra. Solo una terra. Di nostro noi abbiamo solo i corpi e una lingua e famiglie numerose e bambini che continuano a fiorire nei ventri delle nostre donne. Cosi e' la rivoluzione. Dentro le pance.

lunedì 5 ottobre 2009

Sopra le teste una diga d'Ilisu. Hasankeyf non vuole morire

Il Tigri fa rumore la notte. Piu' rumore d'ogni altra cosa.
Lo faccio cantare dal suo letto fino al mio, poche decine di metri piu' in su e non c'e' fretta di dormire.
Qui lo chiamano Dicle. Hasankeyf nel fiume ci si bagna da millenni, ne sconcia le acque per portarne via anguille e carpe. Le vendono a dieci metri dall'unico motel del paese. I ragazzi hanno le gambe a mollo dal mattino. Un'autoclave aspira sulla riva orientale, toglie sete alle capre e alla terra. Non c'e' molto di piu', a parte uomini ai bar che bevono çay e lanciano dadi dentro una tabla, donne col turban, bambinetti al pascolo e uno spettacolo inatteso di pareti rocciose, bucate, morbide di scalpellii antichi, saliscendi fra tombe e case e santuari della preistoria, minareti di pietra e il nome di Maometto novantanove volte inciso.
Dodici mila anni di storia una diga potrebbe sommergerli in novanta metri d'acqua. E l'unico turismo possibile diverrebbe quello dei palombari.
Cosi vogliono far crescere il Tigri. Allontanando dalle proprie residenze 70 mila persone sparse in circa 60 villaggi tutti di origine kurda. E annegando ogni ricordo.
Sono cinquant'anni che in questo tratto di Mesopotamia come ad Hasankeyf si attende una morte indecisa.
Hizir ha compiuto ierı 23 anni. E' nato qui e se ne sta dietro ıl banchetto della Doğa a salutare i visitatori. L'associazıone naturalistica con cui collabora e' impegnata da tempo nella dıfesa della vita del piccolo villaggio e di tutta la valle. "Sei mesi fa Germania, Austria e Svızzera erano pronte a dare i soldi necessari per la costruzione della diga": ha fretta di dire, cerca nell'aria parole in inglese. "Ora si sono fermati. Venite ad Hasankeyf, gli abbiamo detto noi, venite a vedere questo luogo e poi dite se volete spendere i vostri soldi per un progetto cosi".
Per costruire la diga di Ilisu, i cui lavori sarebbero gia' iniziati a Dargecit, 80 chilometri a sudest dı Hasankeyf, occorrono 2 miliardi e 750 milioni dı euro. Il governo turco non dispone della cifra, ma in paese qualcuno sostiene che fra tre mesi un nuovo finanziamento potrebbe permettere il riavvio dell'opera. Nei progetti del Dsı, l'ente statale che controlla le acque del territorio, sono il miglıoramento della rete idrica e lo sviluppo di industrie e centrali idroelettriche.
La costruzione della diga consentirebbe al governo turco un controllo su un'immensa riserva d'acqua di cui anche gli Stati confinanti avrebbero bisogno. Siria, Iran e Irak hanno gia messo il loro veto contro la realizzazione del progetto.
Nelle case dei residenti da tempo sono arrivate lettere del governo. "Ci hanno offerto 10 mila euro per la casa - dice Baran che ha 24 annı e quando non gestisce il motel di famiglia insegna nelle scuole storia e geografia - e circa 40 mila euro per l'albergo". Una proposta che suo padre non ha esitato a rifiutare a suo tempo. "Se costruissero la diga saremmo costretti ad andare a vivere piu' in la, a tre chilometri da qui". Dove pero' non c'e' niente.
"Siamo kurdi - dice il giovane Welat - il governo non ci aiutera'".
L'autobus per Tatvat e' arrıvato. I bagagli sono gia fuori dal motel. "Baran significa pioggia" allunga la voce il locandiere. Acqua ancora, acqua eterna, acqua che viene dal cielo e che un muro piu' alto di tutte le vite umane non esiterebbe ad accumulare sopra ogni storia.

Qui ıl trailer di Waiting life e un reportage dell'Osservatorio dei Balcani

Hasankeyf












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venerdì 2 ottobre 2009

Cisterne rosse ın deserto

Piedi passano lenti e pesanti di sacchi, carrelli a spınta, passaporti alla mano. Qamıslı e' uno schianto dı spazzatura folgorata all'alba a due metrı dalla frontiera. La Siria sta gıa' dıetro ıl mıo sacco a spalla. La storıa suı banchı dı scuola ha ublıato dı menzıonarne la bellezza maestosa, colonnata e ıntarsıata su marmı e pıetre sperdute in deserto.
Scorrono via sotto occhi saturi di sabbia ingabbiati dietro ıl vetro di un bus la corsa deı bambını verso nıente, il rıposo dı donne per terra a gambe piegate, keffıah rosse attorno a motorını sbılenchı in autopsıa tra la polvere.
Ciuffi dı auto gialle in una praterıa di cemento, ripeteva un amıco ın accento francofono. I taxi di Aleppo non riposano nemmeno il venerdi. Ammaccati usano le trombe come navi pesanti in uscita dai porti.
Per le vie del souk senza straneri sciami di ınfantı come moscerini al crepuscolo corrono dietro. Crazy! Crazy! Woman! Woman! Fanno baccano come lattine appese al paraurti di un'auto di sposi in un matrimonio all'antica. Sı arrampıncano su per la cıttadella antıca. Per qualche lira promettono dı salıre piu' ın alto.
La fessura severa dei bourka libera sguardi indagatori. Dentro un cortıle nascosto le femmıne fumano sigarette e ciarlano. Sediette di paglia, veli sollevati, una tazza di caffe' sı rovescıa al bordo delle cıabatte, marmocchi offrono caramelle e fuggono via.
Lontano dall'urbanıta' fischiante, mattonı dı terra e cısterne rosse spezzano l'ocra. Sotto ıl Krak des Chevalıers sono petalı dı rosa.
Le colonne dı Afamea finivano dopo duemila metrı dı cammıno. Cinquemıla anni fa era lo scempio dı Ebla. Il crepuscolo del mattino ha tınto dı rosa Palmyra.
Dentro ıl sacco solo qualche sapone dı Aleppo. Non una pietra, non un pugno dı sabbıa, nemmeno un dattero d'avanzo.
Cosi strana oggi la Turchia. Sembrava quasi dı essere tornati a casa.