martedì 28 ottobre 2008
Fainè ed eresie dentro un bus a due piani
Il salottino interno del bus a due piani era confortevole e intimo. Si stava seduti a gambe incrociate sui tappeti indiani e sopra larghi cuscini con frange agli angoli. Si conversava amabilmente fumando tabacco, sigarette con filtro o pipette variamente caricate e incollando frasi e parole in lingue francesi spagnole inglesi italiane.
Fra noi ci si capiva quasi sempre, e poco importa se spesso il significato complessivo dello stesso discorso prendeva pieghe differenti per ciascun interlocutore. Si continuava a ridere, a conversare, a raccontare di Paesi lontani, di culture diverse, delle donne in Afghanistan che spose sull'altare vedevano per la prima volta l'immagine del proprio marito riflessa dentro uno specchio.
Gli occhi taglienti e francesi di Isabel strizzavano fin quasi a scomparire mentre ci raccontava delle storie avvincenti e drammatiche che un signore di Kabul, Khaled Hosseini, ha trasferito in un libro molto noto anche in Italia "Thousand Splendid Suns"("Mille splendidi soli", ma il suo vero best seller è "Il cacciatore di aquiloni"). Intanto poltigliava fra i denti la fainè con cipolle e pepe che Cristian aveva comprato da Franco, in via Sassari.
Allungando ogni parola e dividendola spesso in sillabe, nella speranza che qualcuna assomigliasse a una delle lingue note ai miei interlocutori, provavo a spiegare che la fainè è un piatto diffuso solo in tre posti della Sardegna: Porto Torres, Sassari e Carloforte e che l'origine è genovese e che a Carloforte ce l'avevano portata i genovesi di Pegli provenienti da Tabarka.
Un miscuglio che mi pareva ottima rappresentazione in chiave gastronomica della nostra serata. Un miscuglio che mi ricordava una pagina de "Lo studio dell'uomo" dell'antropologo Ralph Linton; quella del cittadino americano che si fa la barba secondo un rito masochistico sumero, che fuma dopo pranzo secondo un'abitudine degli Indiani d'America, che legge le notizie del giorno stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti su di un materiale cinese e con procedimento inventato in Germania e che ringrazia un dio ebreo di averlo fatto americano al cento per cento...
"Ma coss a es?" interpellava Isabel.
"Schi-a-ccia-ta-di-ceci-con-a-cqu-a-e-sale" dicevo.
"Che es ceci?" faceva lei.
"Ce-ci. Ce-ce" ripetevo io arrotolando l'indice sopra il pollice per mostrarle le dimensioni del legume.
"Ah! chiche en français" s'illuminava lei guardando Marion che aveva capito. Poi si girava verso Scott che invece non aveva capito nulla da oltre venti minuti e glielo ripeteva in inglese: "Checkpea!".
Al sentire una parola sana nella sua lingua madre Scott si produceva in un improvviso sbalzo di entusiasmo e sembrava incredibilmente felice. E allora tutti annuivamo contenti sentendoci parte di un gruppo e di un discorso unico e multietnico.
Ma a ripensarci Scott era stato davvero generoso con noi altri.
In fondo gli avevano detto semplicemente "cece".
Theo intanto suonava l'armonica e Roots seduto compito al modo dei jack russel e col muso stirato verso l'alto non poteva resistere e ululava inseguendo la nota. A quel punto però erano troppe le lingue da tradurre. Isabel e Scott chiedevano a Theo di non suonare l'armonica e Theo rispondeva qualcosa in francese alla madre e qualcosaltro in inglese al padre e il cane continuava a cantare.
Scott ha gli occhi larghi e azzurri e otto o nove peletti sulla cima della fronte altissima.
Non è che il suo essere inglese (una volta tanto il meno internazionale di tutti) lo lasciasse muto in un angolo. Undici anni in giro per il mondo a bordo di un bus a due piani con la sua famigliola non potevano di certo lasciarlo a corto di storie.
E così Scott parlava. E parlava molto.
Per farlo utilizzava ogni vocabolo o straccio di vocabolo che meglio si avvicinasse all'italiano o a ciò che a lui sembrava tale. Poi però dentro il discorso ci metteva davvero di tutto e per seguirlo al meglio bisognava piroettare senza tempo per pensarci, fra somiglianze e campi etimologici complessi.
In pratica ho capito che Kingston era stata per lui una brutta esperienza, che a Città del Messico non bisognava mostrarsi turista, che in Ladinoammerica i locali hanno difficoltà a pensare che un occidentale non abbia soldi. Certo, in un'ora di discorso era ben poco, ma mi bastava per trovare un aggancio qua e la e dire la mia ogni tanto. Lui però per spiegarsi faceva larghi giri con le braccia, allungava la bocca, sgranava gli occhi e macciullava ogni sillaba italiana o spagnola all'origine.
Continuava a ricordarmi Salvatore, l'eretico del Nome della Rosa, quello che parlava in tutte le lingue del mondo e in nessuna. E forse ai suoi occhi assomigliavo a Salvatore anche io.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
''gli occhi taglienti e francesi di Isabel strizzavano fin quasi a scomparire''passaggio intenso di straordinaria bellezza,cosi come tutta la storia..un reportage dedicato ad una famiglia che fa volare alti nel cielo..gips
RispondiElimina