giovedì 30 ottobre 2008

Il Barman e il Facebook

Dentro un lunotto di pioggia senza tergicristalli che producano effetti concreti sulla visibilità.
Due personaggi discutono.
Sanno di essere al porto perchè ci si son recati prima che cominciasse a piovere.
La discussione è la stessa da circa due ore. E quella si che ha prodotto effetti concreti. Nell'ordine: sull'indigestione della pizza, sulla convinzione che l'argomento non sia quello adatto ai due, sulla convinzione che i due non siano adatti l'uno all'altro, sulla voglia di essere scorrettamente violenti, sul piacere di darsi ragione a vicenda, alla fine.

Il barman: "Mi fai finire? Eh? Ci riesci?"
La cazzeggiatrice: ""
Il barman: "Lo conosco il Facebook. Come fai a dire che non lo conosco?"
La cazzeggiatrice: "Io dico solo che fino a che non ci stai davvero dentro, finchè non lo abiti un pò, non riesci a renderti conto di cosa sia e delle potenzialità che può offrirti.."
Barman: "Ma ti ho detto che ne ho visti tanti di facebbok e il 90 per cento di quelli che ho visto..."
Cazzeggiatrice: "Ma se non hai un facebook..."
Barman: "vabbè allora hai ragione tu.."
Cazzeggiatrice: "vabbè... dì, dì.."
Barman: "sono tutti così..Ciao vuoi essere mio amico?ho 32 anni, sono single.."
Cazzeggiatrice: "ma io non lo uso così.."
Barman, sarcastico: "allora tu sei una dei pochi che lo usa bene"
Cazzeggiatrice, imperturbata dal sarcasmo: "io lo uso come tutti gli altri, non esiste un modo buono e uno cattivo di usarlo. E io non mi sono inventata un modo di usare facebook. Faccio come gli altri"
Barman, occhi al cielo
Cazzeggiatrice, affranta
Barman: "io non ci perdo tempo. Se ti serve per lavoro allora va bene, ma per stare li, a dirsi due stronzate, a mettere due foto... Ah bella la fontanella di Londra..Ah che figo che sei in quella posa.."
C.: "eh si, si che si cazzeggia, ma fa parte della vita anche quello"
B.: "io preferisco chiamarti e chiederti se ti va di prendere un caffè e fare due chiacchiere"
C., sempre più affranta
B., sguardo perso sul lunotto
C.: "ma scusa, se è una cazzata com'è allora che in Inghilterra le aziende prima di assumerti vanno a vedere il tuo facebook? e questo non lo dico io, ma una ricerca che ho letto.."
B.: "io credo a quello che vedo, non a quello che dicono gli altri"
C.: "e non vedi bene.."
B., potrebbe uccidere C
C., sa che sta rischiando la vita
B.: "magari in Inghilterra lo usano diversamente dall'Italia"
C.: "lo usano come gli altri, solo che è diffuso da molto più tempo e uno invece di avere quella settantina di contatti come me, ne ha mille, duemila.."
B.:"io sul myspace ho cinquemila contatti. Lo uso per lavoro, ma mi sta sulle palle lo stesso. Vengono, ti cercano, ti fanno domande cretine, hanno voglia di perdere tempo. Io no. Io preferisco condividere le mie cose con amici veri, non con amici virtuali"
C., colta da improvvisa lucidità:"ma il virtuale non è meno reale del reale. Il virtuale è solo uno dei modi che abbiamo imparato ad usare per relazionarci con gli altri. Noi - tu, io, tanti, milioni di persone - abbiamo imparato a relazionarci anche facendo a meno della carne e delle ossa.."
B.: "ascò, io piuttosto ti mando un sms e ti dico Vediamoci!"
C., sempre più ispirata: "Ed è un sms! Ancora io non compaio! Lo vedi?? E' virtuale anche quello! Eppure un sms ha degli effetti su di noi, effetti concreti, sulle nostre emozioni, sul fare. Quante volte hai ricevuto un messaggio da un tuo amico che hai letto dandogli una certa intonazione e hai risposto di conseguenza, mentre invece il tuo amico lo aveva scritto immaginando un tono e un significato diversi da quelli che avevi dedotto tu? E come nella vita reale ci sono le incomprensioni, così esistono sul virtuale. E come nella vita reale si cazzeggia, così su facebook si cazzeggia! Ma è sempre un relazionarsi e condividere.
C.: "Ma io non voglio condividere. Non me ne frega niente di condividere su facebook una foto con centinaia di persone, o una frasetta cretina postata perchè in quel momento sono depresso, o euforico, o accattivante e tutti allora devono dirmi qualcosa sul mio stato, che magari avevo una settimana fa. Anche gente con cui non mi interessa relazionarmi in quel momento. E ci perdo tempo, e metto altre foto, e scrivo altre cazzate e mi scambio un'iconcina col boccale di birra...Ho altro da fare"
C.: "Ma scusa, immagina cosa fai quando vai a una festa. Incontri i tuoi amici, ma può capitare che incontri anche persone che non conoscevi prima. E che fai? Ti bevi una birra. Parli. Scambi. Fai discorsi, dici cazzate. Facebook riproduce in parte questi meccanismi, solo che bypassa il fatto di trovarsi fisicamente uno davanti all'altro. Ti può capitare che arrivi la richiesta di amicizia di uno che non conosci, ma tu, in vantaggio rispetto alla festa reale, puoi pure ignorarlo.. E' sempre comunque un modo per raggiungere ed essere raggiunti.."
B.:"Si ho capito. Ma quello che non hai capito tu è che io faccio il barman. Io passo dieci ore dentro il mio locale e sono raggiunto in continuazione da gente di tutti i tipi, che conosco e che non conosco, che ride o che piange, che vuole un caffè o uno psicologo con cui confessarsi. Io ne ho le balle piene di essere raggiunto!"

La cazzeggiatrice a quel punto ha capito.
Silenzio.
Guarda la pioggia dal lunotto e si gode l'intimità di essere al porto senza vederlo. E senza che nessuno la veda.
In bilico fra il diritto all'oblìo e la comunicazione di sè, diceva ZetaVu.
E va bene che sul suo blog, la cazzeggiatrice stava per postare un decalogo sui perché Facebook è uno strumento utile, per via di quelle pagine che hanno un pò il sapore dei diari di bordo, sui post e sui commenti e sulle foto che soddisfano quel normale desiderio di auto mise en scene salutare all'identità e alla vita sociale, e ancora sulle foto di cui non si guarda all'estetica ma all'esperienza condivisa..
E va bene..
Ma ora la cazzeggiatrice pensa che si... che il barman abbia ragione e che Facebook in fondo sia un modo per essere al porto mentre tutti lo sanno. E che in quel porto condiviso il tergicristalli ha cancellato la poesia della pioggia sopra il lunotto.
E che c'è anche molto, molto, molto di cazzeggio in tutto questo.


mercoledì 29 ottobre 2008

E piangeranno i moai. Cliccando sui naviganti nel mondo



Grigio pioggia e pioggia. Buio in anticipo, ma sono in ritardo io sulla vitalità.
Tv lontana, dice di gente che aggiusta barche. La sento di sbieco. Un sito racconta invece di barche ovunque, in navigazione, in porto, in attesa di compiere giri del mondo o di ritorno da sabbatiche pause. Le vedi, sciano sui mari digitali del portale, ma sono poi veri, con vele aperte sul vento che aspira e sospinge, hanno longitudini e latitudini al dettaglio, hanno nomi e cognomi, e rotte, ed equipaggi. Le segui, le clicchi, le apri, per quel poco che puoi ci entri. Roland è a bordo de La Boudeuse, è solo, in Atlantico, sua moglie e i figli lo attendono sui mari di casa, quelli comuni anche a me. Michel e Nadine strisciano sopra CapoVerde. Fra un mese, forse meno, passeggeranno lungo le banchine di Cannes indossando maglie di lana e jeans e niente più salsedine.
Greg ha trovato l'Isola di Pasqua. Forse sta guardando un moai e son soli, lui e il moai. Le loro facce si assomiglieranno, avranno qualcosa da dirsi e finite le storie Greg riprenderà il largo a bordo dei suoi dieci metri di casa. E piangeranno i moai di tornare ad essere soli.
Un puntino rosso lampeggia sulla costa algherese. A due passi da me. Un nuovo marinaio si preparerà agli oceani. Clicco. E' sardo. L'ho visto anche ieri sul giornale. Si prepara Fabrizio Carboni. Parte domani, o dopo, per i Caraibi. Un altro puntino rosso striscerà pulsando sui mari. Digitali per me, salati per lui.

martedì 28 ottobre 2008

Fainè ed eresie dentro un bus a due piani




Il salottino interno del bus a due piani era confortevole e intimo. Si stava seduti a gambe incrociate sui tappeti indiani e sopra larghi cuscini con frange agli angoli. Si conversava amabilmente fumando tabacco, sigarette con filtro o pipette variamente caricate e incollando frasi e parole in lingue francesi spagnole inglesi italiane.
Fra noi ci si capiva quasi sempre, e poco importa se spesso il significato complessivo dello stesso discorso prendeva pieghe differenti per ciascun interlocutore. Si continuava a ridere, a conversare, a raccontare di Paesi lontani, di culture diverse, delle donne in Afghanistan che spose sull'altare vedevano per la prima volta l'immagine del proprio marito riflessa dentro uno specchio.
Gli occhi taglienti e francesi di Isabel strizzavano fin quasi a scomparire mentre ci raccontava delle storie avvincenti e drammatiche che un signore di Kabul, Khaled Hosseini, ha trasferito in un libro molto noto anche in Italia "Thousand Splendid Suns"("Mille splendidi soli", ma il suo vero best seller è "Il cacciatore di aquiloni"). Intanto poltigliava fra i denti la fainè con cipolle e pepe che Cristian aveva comprato da Franco, in via Sassari.
Allungando ogni parola e dividendola spesso in sillabe, nella speranza che qualcuna assomigliasse a una delle lingue note ai miei interlocutori, provavo a spiegare che la fainè è un piatto diffuso solo in tre posti della Sardegna: Porto Torres, Sassari e Carloforte e che l'origine è genovese e che a Carloforte ce l'avevano portata i genovesi di Pegli provenienti da Tabarka.
Un miscuglio che mi pareva ottima rappresentazione in chiave gastronomica della nostra serata. Un miscuglio che mi ricordava una pagina de "Lo studio dell'uomo" dell'antropologo Ralph Linton; quella del cittadino americano che si fa la barba secondo un rito masochistico sumero, che fuma dopo pranzo secondo un'abitudine degli Indiani d'America, che legge le notizie del giorno stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti su di un materiale cinese e con procedimento inventato in Germania e che ringrazia un dio ebreo di averlo fatto americano al cento per cento...

"Ma coss a es?" interpellava Isabel.
"Schi-a-ccia-ta-di-ceci-con-a-cqu-a-e-sale" dicevo.
"Che es ceci?" faceva lei.
"Ce-ci. Ce-ce" ripetevo io arrotolando l'indice sopra il pollice per mostrarle le dimensioni del legume.
"Ah!
chiche en français" s'illuminava lei guardando Marion che aveva capito. Poi si girava verso Scott che invece non aveva capito nulla da oltre venti minuti e glielo ripeteva in inglese: "Checkpea!".
Al sentire una parola sana nella sua lingua madre Scott si produceva in un improvviso sbalzo di entusiasmo e sembrava incredibilmente felice. E allora tutti annuivamo contenti sentendoci parte di un gruppo e di un discorso unico e multietnico.
Ma a ripensarci Scott era stato davvero generoso con noi altri.
In fondo gli avevano detto semplicemente "cece".

Theo intanto suonava l'armonica e Roots seduto compito al modo dei jack russel e col muso stirato verso l'alto non poteva resistere e ululava inseguendo la nota. A quel punto però erano troppe le lingue da tradurre. Isabel e Scott chiedevano a Theo di non suonare l'armonica e Theo rispondeva qualcosa in francese alla madre e qualcosaltro in inglese al padre e il cane continuava a cantare.
Scott ha gli occhi larghi e azzurri e otto o nove peletti sulla cima della fronte altissima.
Non è che il suo essere inglese (una volta tanto il meno internazionale di tutti) lo lasciasse muto in un angolo. Undici anni in giro per il mondo a bordo di un bus a due piani con la sua famigliola non potevano di certo lasciarlo a corto di storie.
E così Scott parlava. E parlava molto.
Per farlo utilizzava ogni vocabolo o straccio di vocabolo che meglio si avvicinasse all'italiano o a ciò che a lui sembrava tale. Poi però dentro il discorso ci metteva davvero di tutto e per seguirlo al meglio bisognava piroettare senza tempo per pensarci, fra somiglianze e campi etimologici complessi.
In pratica ho capito che Kingston era stata per lui una brutta esperienza, che a Città del Messico non bisognava mostrarsi turista, che in Ladinoammerica i locali hanno difficoltà a pensare che un occidentale non abbia soldi. Certo, in un'ora di discorso era ben poco, ma mi bastava per trovare un aggancio qua e la e dire la mia ogni tanto. Lui però per spiegarsi faceva larghi giri con le braccia, allungava la bocca, sgranava gli occhi e macciullava ogni sillaba italiana o spagnola all'origine.
Continuava a ricordarmi Salvatore, l'eretico del Nome della Rosa, quello che parlava in tutte le lingue del mondo e in nessuna. E forse ai suoi occhi assomigliavo a Salvatore anche io.


domenica 26 ottobre 2008

Blog in soffitta

A dieci anni avevo un'amica di carta che si chiamava Kitty. Prima di me l'amica di Kitty si chiamava Anna Frank che aveva tre anni in più di me ed era anche un'amica mia perchè l'avevo letta e riletta nel corso della quinta elementare e durante l'estate successiva. Allora con mamma e babbo ci si trasferiva nella casa al mare e la mia cameretta senza porta aveva il tetto basso e la finestra attaccata al pavimento.
Come Anna Frank anche io vivevo in una soffitta, ma la mia si affacciava sul porticciolo e non c'erano guerre nè persecuzioni. Come lei anche io confidavo a un amica di carta, alla stessa amica, i miei piccoli segreti.
Uno dei segreti di Anna, il più importante di tutti, era la sua stessa esistenza nonostante il volere dei tedeschi.Per il resto aveva tanti altri piccoli segreti, molto simili ai miei. Così Anna diventò un'amica cara e nel giro veloce di un'estate, quella del 1986, anche Kitty entrò a far parte delle mie amiche del cuore.