venerdì 17 luglio 2009

Meltemi

Acqua. Chi vive sulle coste non lo chiama così. I greci hanno tanti modi per chiamare il mare, leggevo da Pedrag Matvejevic'. Hals per dire della salinità, della materia, dei granelli che ti scavano la pelle e ti lasciano rughe attorno agli occhi e crepe sulle mani. Pelagos per dire della distesa, della vastità che ti rende isolato, confortato solo sei sei ben disposto; usano pontos se parlano del viaggio, dell'attraversamento e colpos che è il golfo, il mare che abbraccia la terra, ché prima o poi a un riparo ci arrivi. Parlano di laitma se pensano alla profondità, alle mille castagnole scure che sembrano guardarti mentre tu stai sotto, in mezzo a loro e non hai respiro umano che sostenga il tuo vivere, ma solo aria di riserva, aria che tu hai preparato e di cui fai cambusa prima di calarti nel fondo per un istante breve che non può bastare per osservare tutto e capire se davvero i pesci stanno a guardarti.
E dicono thalassa se parlano dell'esperienza marina.
Acqua non è. Ma l'abbiamo presa. Perché ad agitare tutto era vento. Forte, da nord, mai placato, mai che si adeguasse lui alle vele, ma sempre noi alla sua intensità e direzione cangianti.
Vento da nord, termico, giocava a ping pong con le isole. Frizza da una e rimbalza sull'altra, torna indietro e rincara. Solletica e ricomincia.
Prendila così l'onda. Scavalcala adesso con la poppa del Marea e porta la prua verso il vento prima che sia quello a giocarti come biglia.
Non c'è un momento in duecento miglia filate in cui dici, è fatta, io riposo. Non c'è un'isola per cui dici, quella è casa.
Ma isole ne lasci a dritta e sinistra senza fermarle, senza chiedere un passaggio per la buonanotte.
Arrivi a Kithnos, arrivi su uno scoglio che scopri chiamarsi Dhenousa, vicino Skilonisi, che ti sei rotto di stare nell'acqua di quel tipo. Scallonisi, come dicono altrove. E invece no. Hai da ballare anche stanotte, che Meltemi, vento del nord sull'Egeno, non molla e raffica sulla tua testa come tu fossi erba e non da fumare, ma da smuovere e strappare e schiacciare verso meridione.
Tu passa l'Egeo e lui passa te.
Tu scopri un porto tranquillo dopo tre giorni e qualunque esso sia proverai beatitudine.
Scusa le parole schizzate. Ma l'acqua salata ha imbrattato gli ingranaggi. Rallentati, resi disfunzionali. E nonostante Kos, nonostante la medicina nasca sull'incrocio in cui hai appena ormeggiato, ecco che puoi ignorare Ippocrate ed Aesculapio, ecco che delle cure l'unica notevole sia un porto.
In cui stare, e sentire cicaleggio sulla banchina e dormirci sopra.
Ché l'acqua è cheta e Meltemi a ovest della Turchia, a fare ciò che vuole di altri.
Tu sei arrivato. Finisci lì.

domenica 12 luglio 2009

Storia veloce/2








E poi il rene buono di Atena si libera e la città finisce sotto ettolitri di pioggia. A spezzare quaranta gradi di afa e l'abbondante passeggiata litoranea che il pubblico sta concedendosi. Disegnavano traiettorie perpendicolari alla poppa. Avanti e indietro.
Quando il rischio di annegare s'è fatto forte la banchina è diventata deserta.
E poi il rene si svuota. Subito la prima coppia di fidanzati ha sfilato da sinistra verso destra davanti al pozzetto, nemmeno il tempo che si asciugasse il marciapiede. Come se non avessero mai smesso di camminare neanche sotto la pioggia, e poi eccoli di nuovo per nulla bagnati, mano nella mano. Più in là è tornata pure quella bambina, chè l'ho vista spesso, sempre a scaccolarsi con le dita piene di pallini verdi arrotolati fra l'indice e il pollice e qualcunaltro dimenticato sopra un'unghia.
Questo tempo secca il moccio e poi lo bagna ancora.
Adesso come se niente fosse.
Hanno ripreso tutti a scorrermi davanti, ignorando ch'io stia a guardarli. Hanno ripreso nelle lingue proprie. Le lingue umide, i vestiti freschi, i motorini, le biciclette, i rollerblade, le mani dietro la schiena, i piedi dei giovani neri accanto a tovaglie apparecchiate con occhiali da sole.
Hanno già smesso di vendere ombrelli. Ma poi non capisci mai dove li tengano nascosti e come possano farsi trovare pronti al momento del bisogno. Lesti come saette. Più rapidi di questa pisciazza di dea. Più funzionali di un rene divino.

Storia veloce

Vorrei una tastiera greca per fare come alle elementari, mix di segni grafici sconosciuti e suoni. Che poi è come inventarono i fenici. Per ora quasi tutto senza senso ma è bello giocare con codici che paiono svelarsi. Come formule magiche, poi una ragione (e un effetto) ce l'hanno.
Qui diventa rapido Theodorakis, s'impenna fra le corde e Zorba il greco sembra qualcosa di allegro. Ma poi, durante la musica al mercato di Monastiraki ragazzi neri coi sacchi bianchi carichi di cianfrusaglie da vendere, stanno correndo fra le vie strette. Corrono veloci, come Theodorakis, in fila indiana, s'infilano tra il carretto che vende collane e la zingara che promuove stoffe. E fuggono via perché c'è l'autorità. E sembra colore che corre, ma è destino da scampare.
Il cameriere di Plaka porta riso avvolto nella vite, ma è pieno di maiale. Ci guarda Atena dal suo tempio, mentre guide locali narrano di una inesorabile distruzione. Cronache di sfaceli, in tutte le lingue, per tutte le orecchie, per migliaia di nikon e di canon. Prendetela così, nelle vostre macchinette. Questa è la fotografia della fine. Questa è la parte terminale ma non finita di un crollo, del crollo di Atene che pure è fatta di spezie, di volti dai nasi allungati e occhi chiari, di cuoio, di che guevara e musica jamaicana, di albanesi che dicono "come estai?". Di strade grosse, di cemento che tutto ha coperto, di rocce che non cedono, di strade piccole, di coca cola e strade medie che fanno pensare a periferie californiane. Eppure bella. E forse brutta come dicevano. Ma stasera la vedo dalla cuccetta, e poi vado. Non è esaurita la città, ma il tempo per la nostra relazione.
Theodorakis resta a bordo.

mercoledì 8 luglio 2009

Stretti fra angoli e dei

Stretto è il canale che ci conduce all'altro mare. Sponde di terra che ricordano casa, di tufo e arenaria, alte e vicine, con ponti che sovrastano e braccia alzate che cercano il nostro saluto.
Siamo noi i naviganti. Andiamo verso l'altro lato, compiamo il nostro viaggio dentro la terra che fu confine invalicabile, termine imperfetto di un mare cieco e che oggi comunica invece con l'est. Oriente che ignoriamo. Egeo guarda il nostro arrivo.
E ci siamo. Il vento è da ovest, il genoa è una vela di prua appena più grande che ci conduce. Quattro miglia di iniziazione dentro un canale, me al timone, Arturo al timone, un fila di vele dietro la nostra. E dopo il pedaggio ecco l'Egeo che accoglie l'incedere. 38 miglia più a est arriva la visione.
L'Olimpo o ciò che ne fece leggenda non sovrasta Atene, la snobba appena, e noi lo inquadriamo alla perfezione dentro i nostri binocoli.
I marinai riposano bene stanotte. Dentro cuccette strette con cimitero di zanzare intorno. Ci aspetta la città. Ci illudiamo che lo stia facendo. Speriamo che non sia come Corinto che, prima del canale iniziatico, s'è mostrata città quadrata e speculare, fatta di strade che hanno parellele e perpendicolari infinite; città d'angoli, in cui l'angolo, il corner, è unico metro di misura di ogni spazio. Aiutato da qualche negozio di scarpe.
Dell'urbanità in cui ci troviamo stasera speriamo abbiano qualcosa da raccontarci gli dei.