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sabato 1 agosto 2009

Fine delle campane

Abbiamo superato la barriera del suono. Cicale si affacciano sui lati delle montagne e spiccano di frastuono mentre noi passiamo le isole e dirigiamo sul fondo caldo della baia.
Dacta è un tavolo aperto sopra una piazza che sventola Ataturk. Selimiye ha le cime di poppa sopra ristoranti e un mercato di donne con occhi lunghi e gonne e verdura nuova da provare. Marmaris è il passeggìo notturno che riposa abbandonato ai sofà del mattino. Gocek ha solo due strade.
Il minareto non lo vedo. Devo cercarlo prima di pareggiare l'udito al senso degli occhi. Dicono sia registrato come le nostre campane ormai. Qualche sporadico canta ancora, ma è fato incontrarlo. Cose dell'interno, non più della costa abbagliata di luci e cianfrusaglie per turisti. Ma le campane non esistono e nessuno ne ha nostalgia.
Philippe è francese e ha dimenticato la Francia. Porta vino locale sulla tavola del nostro pozzetto. Cathy è canadese, viaggia sei mesi l'anno e stanotte dorme sulla barca affianco; beve della nostra birra che però è Efes. Ichnusa ne resta una bottiglia sola e non sappiamo ancora quando verrà la giusta occasione.
Tuycp mi porta dentro la moschea prima vestendomi di fazzoletto sul capo e gonna lunga e spogliandomi dei sandali greci. Gioca con le compagnette e si ferma, come addomesticata da precendenti incontri, davanti al mio obiettivo.
Firat continua a fare il cameriere nel piccolo ristorante di Marmaris, a servire piatti di melanzane, funghi, patate e riso; garantisce delizie e poi le serve su un piatto.
La cuoca è stanca. Siede sul gradino a cercarmi lo sguardo quando il mio già cercava il suo.
Ho camminato senza capire niente. Ho comprato borsellini rossi con luna e stella pensando di fare più mio un Paese sconosciuto. Ho contato i gatti di ogni angolo, ho confuso la coda di uno di loro per il ferro battuto di un tavolino. Ne ho confuso un altro per un borsa dimenticata su una pietra tombale.
Cecile vende argento e vuole ballare. Ho una darbuka che fa ballare anche i pochi cani che trovo. Tutti vogliono poggiarci le dita sopra. Occorre disciplinare gli arti e tamburellare non è un semplice movimento stizzoso. Certi turchi tamburellano benissimo, ma sono in pace.
Dietro il bancone mi parlano in lingua. Aspetto. Lascio che finiscano tutta l'incomprensibile frase. Poi chiedo se possono ripetere in italiano. Si scusano. Ci ritentano in inglese. Siamo mediterranei mi dicono. Non c'è niente di più simile a un turco di un italiano. Forse un sardo.
Sto lasciando nelle retrovie il meglio del mio pensiero. Non ho forza di tirarlo in coperta. L'aria bollente fa evaporare i concetti. Non c'è fortuna di vederli sgocciolare prima in parole.
Sono stanca di tanto stupore. Ho smesso lo stupore. Lo stupore è stupido a volte. Perchè dovrei amare un libro sacro sopra bambini che giocano e si lanciano rosari musulmani sui tappeti, anzichè il catechismo che Don Fenu ci impartiva nella sede di via Josto all'età di sette anni? Perchè dovrei snobbare i suoi sacramenti e sognare per un Corano altrui? Perché seni seuiyorum dovrebbe incantare più di I love you? Forse che si sprigioni più amore dalla forma delle singole lettere e dentro il loro mescolarsi?
E' suono. Come di cicale. Come di campane la domenica. Come di minareti al pomeriggio, alla sera e all'alba, ogni giorno, dopo i dj di Marmaris.
Philippe e Luce finirono il loro viaggio orizzontale a bordo del Pitawa-Ma e cominciarono quello verticale, scegliendo Turchia. Adesso c'è un motivo perchè dovremmo opporci a questo tipo di scelte? E c'è un motivo valido per confermarle?
Dov'è casa nostra? A quante miglia abbiamo lasciato l'abitudine dei nostri appuntamenti? In quanto tempo saremmo in grado di acquisirne di nuovi? E perchè mai poi?
L'ultima terra, poi c'è l'Europa. La differenza riposa stanca sulle panchine e porta fazzoletti in testa parlando ottomano. L'identità accetta euro e vende fazzoletti per tutti.
Non so cosa succeda più a est.