h: 10.30 (locale); 12.30 (utc); 13.30 (italiana); Posizione: 20°34’N 34°11’W ; Distanza (in linea d’aria) dalla costa africana: 950 miglia; Distanza dalla costa americana: 1600 miglia; Rotta: 240° (accostato adesso dai 270° degli ultimi giorni; Vento: appena girato da SSE; Intensità: forza 3; Velocità: 6.5 kts; Propulsione: fiocco e randa (motore appena spento); In viaggio da: 9 giorni; Avvertenza: sposteremo il biglietto di rientro dopo l’11 gennaio in data ancora da definire.
La bisca clandestina si riunisce ogni sera sottocoperta all’ora del tramonto. Ognuno al proprio posto si va a caccia di ori, scope, settebelli. Al momento il capitano è in testa; a distanza di un punto il marinaio e la marinaia gli stanno col fiato sul collo. Sarà un lungo torneo.
Salutata Las Palmas, per tre giorni e tre notti bolinavamo verso sud ovest, lasciandoci quasi 500 miglia alle spalle. Rapidi finché il vento non ha ruotato allentando la presa.
Eccoli gli alisei. Arrivano, soffici. Spingono. Qualche volta basta la vela di prua perché la scia dietro di noi sia turbolenta e briosa.
La notte il mare s’è riempito di luna. Dietro il Two Moons una via luminosa, poi in fondo una piazza immensa di luce gialla dove nei sogni andare a correre coi pattini e le biciclette.
Il giorno l’onda è il tempo che passa. Ma il tempo non c’è e lo spazio è troppo vasto per pensarlo. Quando mi tuffo sola nell’oceano sono qualcosa galleggiante nell’infinito. Duemila metri di acqua sotto, centomila metri di cielo sopra, senza punti cospicui l’orizzonte è ovunque. Fortuna che la barca è vicina.
Ancora alisei. Ora ruotano. Vengono da est. Troppo da est. Si placano. L’aria leggera in poppa non è sufficiente. Dobbiamo dare motore. Sono passate ore e niente cambia.
Le nuvole. Guardale laggiù in fondo. Sono a forma di fungo. Verrà dell’aria fresca a spingere Two Moons. E l’aria viene. Ma poi ci supera, se ne va.
Le guardie notturne portano cose nuove. La luna sale che ormai è quasi mattino. L’orsa minore sta appesa al fianco destro come il poster sul muro di una cameretta.
Guardie, riposi, onde; sveglie, colazioni, libri, onde; canzoni, chiacchiere, discorsi, onde; pranzi, cene, bische, onde; natale, capodanno, onde. Il corpo non sta fermo mai. Non un attimo in cui possa sembrarti immobile davvero. Siamo solidali con l’onda e scrutando il barometro di tanto in tanto, aspettiamo il ritorno del vento.
Non arriveremo prima di dieci giorni. Siamo già certi che sposteremo il biglietto di rientro.
Avremo ancora molto cielo da osservare. Raccoglieremo al mattino pesci volanti caduti di notte in coperta rigettandoli rigidi al mare. Un piccolo uccello s’è accucciato in cabina e col sole ha ripreso il suo volo. Dondoleremo senza sosta, appoggiandoci a momenti sopra gli oblò a guardare pensieri senza fondo. Saremo lucidi e stanchi, saremo allegri e annoiati. Avremo da dire e staremo in silenzio. Schioccheremo un razzo scaduto dalla nostra poppa alla mezzanotte locale del nuovo anno e stapperemo spumanti. Ci riuniremo spesso in bische clandestine salutando al tramonto il pubblico a casa.
Però siamo soli e senza tempo e il nostro andare è semplicemente la vita che abbiamo.
Buon 2011 dall’equipaggio del Two Moons!
giovedì 30 dicembre 2010
martedì 21 dicembre 2010
Da Gibilterra a Las Palmas
Gibilterra, marina bay |
Barbate, mercato ortofrutticolo |
Vik, capo delfino |
Two Moons |
Las Palmas, Gran Canaria |
La vegueta, Las Palmas |
Bacheca del sailor bar, Las Palmas |
Las Palmas |
Feste in oceano
Etichette:
alghero natale,
capodanno,
oceano
Massimo al sailor's bar ha appena chiuso. Canarie arrivederci.
Domani si muovono le isole.
Natale e capodanno in oceano, comandà? Si, mi pare che sarà così.
Perciò auguri a tutti voi.
Il battello vi pensa
Domani si muovono le isole.
Natale e capodanno in oceano, comandà? Si, mi pare che sarà così.
Perciò auguri a tutti voi.
Il battello vi pensa
domenica 19 dicembre 2010
Il cappello di Natale
Etichette:
barca,
las palmas,
Natale
Ho un cappellino da babbo natale, in testa da ore ormai. L'ho comprato in un cinese assieme a quelli per il resto della truppa. Non ha stellette intermittenti come quello che indossavo anni fa a Siracusa quando ìn mezzo strada giravo tre clave fra le mani, sul dorso tenevo una chitarra ed era ugualmente tempo di feste, ma la parte rossa è tutta fatta di una patina luminescente e mi sta come fossi il capo vero di una mandria di renne. Però qui, a differenza della Finlandia e di Siracusa, governo la mia slitta in canottiera e sandali greci. La moda inverno va forte sulle vetrine di Las Palmas. Mi chiedo quale sia la differenza rispetto alle altre stagioni.
Ho comprato altre cose che hanno a che fare col natale, ma è uno sforzo incredibile ricordarsi che lunedì sarà il 20.
La barca è solitaria. Ecco, si. Ora, qualcuno che legge queste righe avrà la barca tutta sua, come me forse per la prima volta dopo quasi un mese. La ciurma va per bar e la marinaia se ne sta al silenzio dell'ormeggio. Buffo sentirsi privilegiati per questo, quando tutto il mare che navigheremo a breve verrà a cancellare il rumore della terra. E ne avremo per giorni e notti infinite.
Ecco, si. In gran segreto dico: se c'è un luogo in cui non subisco il trascorrere del tempo, è questo.
Allora quanto durano cinque giorni? chiese il marinaio. Non so, rispose l'altra. Forse un tempo che non può essere calcolato in nessun modo. Forse potrei contare le onde e dirtelo, ma mi perderei nel vapore della schiuma di ogni onda e potrei non risponderti mai.
Allora, disse il marinaio, dimmi quant'è grande questo spazio.
Ma l'altra rimase interdetta: Non so, disse. Perchè potrei risponderti coi giorni necessari a traversarlo, ma siccome, stando appresso ad ogni onda, del tempo ho perso cognizione, potrei non risponderti mai.
Il marinaio pensò che era una cosa troppo complicata e non fece altre richieste.
Però poi guardò bene la marinaia e vide che aveva in testa un berretto, color rosso luccicante e un pon pon tutto bianco che scendeva alla fine sulla tempia scura.
Scusa, disse, questo dev'essere il tempo del natale.
Non so, rispose l'altra. Così avevo visto giorni fa in mezzo a certe vetrine. L'aria era calda e qualcuno cantava "oh happy, happy christmas". Era tutto perfettamente fuori tempo. Non saprei perciò dirti che tempo fosse. Io indossavo una canottiera e camminavo per la via. Sicuro, era un tempo diverso da questo, perchè c'erano negozi, un lungo marciapiede e tanti esseri umani sulla via, ma col trascorrere delle onde lontano dal molo ho perso il conto di tutto.
Non c'è una cosa al posto che avrebbe dovuto avere.
E con questo se ne andò il marinaio e se ne andarono i giorni. La marinaia restò sola e tutte le onde che arrivarono non furono in grado di rispondere a nessun nuovo quesito.
Non so. Forse come tutte le letterine scritte e affidate all'albero nell'atrio delle case.
Ho comprato altre cose che hanno a che fare col natale, ma è uno sforzo incredibile ricordarsi che lunedì sarà il 20.
La barca è solitaria. Ecco, si. Ora, qualcuno che legge queste righe avrà la barca tutta sua, come me forse per la prima volta dopo quasi un mese. La ciurma va per bar e la marinaia se ne sta al silenzio dell'ormeggio. Buffo sentirsi privilegiati per questo, quando tutto il mare che navigheremo a breve verrà a cancellare il rumore della terra. E ne avremo per giorni e notti infinite.
Ecco, si. In gran segreto dico: se c'è un luogo in cui non subisco il trascorrere del tempo, è questo.
Allora quanto durano cinque giorni? chiese il marinaio. Non so, rispose l'altra. Forse un tempo che non può essere calcolato in nessun modo. Forse potrei contare le onde e dirtelo, ma mi perderei nel vapore della schiuma di ogni onda e potrei non risponderti mai.
Allora, disse il marinaio, dimmi quant'è grande questo spazio.
Ma l'altra rimase interdetta: Non so, disse. Perchè potrei risponderti coi giorni necessari a traversarlo, ma siccome, stando appresso ad ogni onda, del tempo ho perso cognizione, potrei non risponderti mai.
Il marinaio pensò che era una cosa troppo complicata e non fece altre richieste.
Però poi guardò bene la marinaia e vide che aveva in testa un berretto, color rosso luccicante e un pon pon tutto bianco che scendeva alla fine sulla tempia scura.
Scusa, disse, questo dev'essere il tempo del natale.
Non so, rispose l'altra. Così avevo visto giorni fa in mezzo a certe vetrine. L'aria era calda e qualcuno cantava "oh happy, happy christmas". Era tutto perfettamente fuori tempo. Non saprei perciò dirti che tempo fosse. Io indossavo una canottiera e camminavo per la via. Sicuro, era un tempo diverso da questo, perchè c'erano negozi, un lungo marciapiede e tanti esseri umani sulla via, ma col trascorrere delle onde lontano dal molo ho perso il conto di tutto.
Non c'è una cosa al posto che avrebbe dovuto avere.
E con questo se ne andò il marinaio e se ne andarono i giorni. La marinaia restò sola e tutte le onde che arrivarono non furono in grado di rispondere a nessun nuovo quesito.
Non so. Forse come tutte le letterine scritte e affidate all'albero nell'atrio delle case.
sabato 18 dicembre 2010
Arrivi e partenze a Las Palmas
Etichette:
atlantico,
attraversata,
barca,
gran canaria,
las palmas,
oceano,
west
Al mattino la marina è tranquilla. Sulla barca accanto la proprietaria ha già cominciato come ogni giorno a lavorare. Chiude gli osteriggi, tira fuori la manichetta dell'acqua, ordina le manovre in coperta, si gira verso il Two Moons, buenas dias mi dice. Il resto del mio equipaggio si sveglia pian piano. Eccoli in pozzetto mentre il sole guizza di tanto in tanto fra i cumuli bianchi di nuvole e scalda oltre la normale logica di ciò che per me significherebbe dicembre. Com'è dolce ingannare la stagione con la geografia.
A breve verrà il velaio a restituirci la randa strappata in mezzo all'atlantico. Quanti danni da risolvere, mentre la meteo non ci consentirà di partire prima di lunedì. Natale e capodanno saranno moltissimi meridiani più a ovest di Greenwich, lontani da ogni terra. Verrà forse a confondermi ancora il senso dei confini. L'orizzonte potrebbe prendersi gioco di noi e farci credere di navigare in un mare chiuso, o in questo modo dirci la verità.
La barca è un recinto oltre cui non c'è scampo.
Il porto è una porta.
Arrivare, partire, il dondolìo, l'onda, il sole, il mattino, le nuvole, il buio, la notte, l'andare, il rollare, il sogno, le guardie, l'oceano. Chi riuscirà a decidere a che cosa assomiglia di più il proprio animo?
Pensi che tutto sia incredibile? Tutto stupefacente? O sei solo uno scafo che tiene una rotta monotona, un pugno di intestini prigionieri dentro un breve cortile in vetroresina e galleggi per via di forze di cui non sei artefice nè ingegnere. Siamo forse gli esploratori del già dato.
Al piccolo bar davanti al molo arrivano naviganti ed aspiranti. Se ne stanno tutti là al bancone, bevono birre, mangiano patate fritte e puntillas, appendono al muro annunci di carta. Chiedono l'atlantico, il grande passaggio per l'ovest, chiedono tutti di sbarcare nell'altrove superando con le vele l'oceano.
Io mi godo lo strascico del piccolo tratto di oceano passato e già così di nuovo lontano.
Sono trascorsi quattro giorni e quattro notti dall'attracco a Las Palmas. Sembra un tempo infinito.
Mi piace strisciare la suola delle infradito sull'asfalto mentre mi reco ai bagni del marina per fare una doccia bollente.
A breve verrà il velaio a restituirci la randa strappata in mezzo all'atlantico. Quanti danni da risolvere, mentre la meteo non ci consentirà di partire prima di lunedì. Natale e capodanno saranno moltissimi meridiani più a ovest di Greenwich, lontani da ogni terra. Verrà forse a confondermi ancora il senso dei confini. L'orizzonte potrebbe prendersi gioco di noi e farci credere di navigare in un mare chiuso, o in questo modo dirci la verità.
La barca è un recinto oltre cui non c'è scampo.
Il porto è una porta.
Arrivare, partire, il dondolìo, l'onda, il sole, il mattino, le nuvole, il buio, la notte, l'andare, il rollare, il sogno, le guardie, l'oceano. Chi riuscirà a decidere a che cosa assomiglia di più il proprio animo?
Pensi che tutto sia incredibile? Tutto stupefacente? O sei solo uno scafo che tiene una rotta monotona, un pugno di intestini prigionieri dentro un breve cortile in vetroresina e galleggi per via di forze di cui non sei artefice nè ingegnere. Siamo forse gli esploratori del già dato.
Al piccolo bar davanti al molo arrivano naviganti ed aspiranti. Se ne stanno tutti là al bancone, bevono birre, mangiano patate fritte e puntillas, appendono al muro annunci di carta. Chiedono l'atlantico, il grande passaggio per l'ovest, chiedono tutti di sbarcare nell'altrove superando con le vele l'oceano.
Io mi godo lo strascico del piccolo tratto di oceano passato e già così di nuovo lontano.
Sono trascorsi quattro giorni e quattro notti dall'attracco a Las Palmas. Sembra un tempo infinito.
Mi piace strisciare la suola delle infradito sull'asfalto mentre mi reco ai bagni del marina per fare una doccia bollente.
mercoledì 8 dicembre 2010
Fine della sosta
Nel piccolo baretto in fondo al molo di Barbate sono in tanti ad aspettare il vento giusto. Accanto a questo tavolino, tre ragazzi spagnoli studiano la meteo per capire quando partire. Un altro spagnolo è qui da venerdì. Molliamo gli ormeggi tutti domani. Tutti per Canarie, che sia Las Palmas o Tenerfe. Sarà il vento a decidere.
Guarda, dice la barista dietro al bancone al suo uomo, il mare ha smesso di sbuffare. Non vola più oltre il molo, abbattendosi in banchina come la proboscide di un elefante.
Al mattino questo sorriso di mulatta mi preparava un succo di arancia gustoso.
Come dovranno sembrarle le vite di questi passanti in sosta sopra la sua terrazza?
A me lei sembra un sorriso confortevole, una chiacchiera morbida prima di mezzogiorno, un pane caldo appena sfornato.
Come mai premo sempre per partire, quando è la pausa in porto il momento più gentile?
Guarda, dice la barista dietro al bancone al suo uomo, il mare ha smesso di sbuffare. Non vola più oltre il molo, abbattendosi in banchina come la proboscide di un elefante.
Al mattino questo sorriso di mulatta mi preparava un succo di arancia gustoso.
Come dovranno sembrarle le vite di questi passanti in sosta sopra la sua terrazza?
A me lei sembra un sorriso confortevole, una chiacchiera morbida prima di mezzogiorno, un pane caldo appena sfornato.
Come mai premo sempre per partire, quando è la pausa in porto il momento più gentile?
lunedì 6 dicembre 2010
Passaggio d'Ercole
Etichette:
africa,
atlantico,
barbate de la frontera,
colonne d'ercole,
polimeri europa,
vele,
viaggio
Sfilano le coste del Marocco all’ora di pranzo. Eccoci, coperti d’onde, mentre la prua del Two Moons affonda dentro il vento dell’est e si fa spingere fuori dalle colonne d’Ercole. Oltre le antiche Calpe e Abila, odierne Gibilterra e Jebel Musa. Si, questo è già atlantico, dice Vik. Ecco perché la Linea de la conception si chiama così. Da qui nasce un mare diverso. Il nostro esotismo è qui. Le coste dell’Africa sulla sinistra. Sono proprio loro, sono così, montagne alte. Chi poteva immaginarsele tali. Il nostro esotismo cresce. Di orizzonti appena intravisti, sconosciuti. Il nostro orizzonte si carica di passione per qualcosa che non sappiamo cosa possa essere, ma è altro. E’ altrove. Dall’altro lato l’Europa. Siamo in mezzo allo stretto. Ci facciamo sedurre dall’immaginazione, da un miraggio che nasconde, nella mia ignoranza, vite tanto diverse da restare segrete. Io vedo i monti segreti dell’Africa e il mio mare è diventato un oceano. Quale sogno poteva essere più irreale di questo viaggio?
E adesso questo mare viaggia veloce e gonfio, col levante che ci soffia sopra a 50 nodi. I miei primi. Prendiamo tre straorze. La prua della barca se ne vola rapidissima verso il vento. Dobbiamo ridurre le vele. Stiamo volando. Le pinne dei delfini corrono sotto la nostra chiglia più veloci del log. Ecco, una pinna diversa, sembra stiracchiarsi fra le onde. E’ uno squalo. Il mio primo.
Barbate de la frontera compare, dopo sei ore di navigazione, sotto una pioggia insistente e fastidiosa. Anche qui. Sembrano case finte quelle che sorgono sul lungo spiaggione giallastro. Il porto è desolato. A cena finisce il gas e non abbiamo ricambio. La pasta ai broccoli sembra un risotto, ma al confronto col niente ci sembra decisamente buona.
lunedì 29 novembre 2010
Qui Gibilterra
Etichette:
Alboran,
Gibilterra,
Spagna
Non so quanto tempo sia passato. Un paio d'ore forse, con gli occhi chiusi sopra la bitta ad aspettare, sotto la pioggerella della notte spagnola. It's inusual mi diceva il poliziotto chiedendomi il passaporto. Ok, ma adesso lasciatemi riposare. Non sento più l'aria frizzante punzecchiarmi sotto la pelle. Mi si è fatta l'anima ermetica mentre attendo il mio passaggio per l'ovest.
Pochi secondi. I fanali di via del Two Moons li vedo spuntare sui bordi dell'ingresso del porto. Eccoli, dico. Mario si sveglia. Il Two Moons attracca sulla banchina dell'ultima darsena di Malaga. Le nostre valigie sono li, sul molo in cemento bagnato. I marinai del peschereccio accanto li vedo guardarci da dietro gli oblò mentre saltiamo a bordo. Pochi secondi. Superato il molo di sopraflutto siamo già dentro le onde di Alboran. Il vento da est sta aumentando. La Spagna è già altrove.
Il mare ci inghiotte, Vik. Onde al traverso, onde da dietro, onde da ovunque. Ci nascondono di molti metri sotto l'orizzonte.
Non ci sono perimetri di terre oltre i bordi del mare. Passa una notte. L'alba è dietro le nubi. Capo Europa arriva soltanto quando siamo a mezzo miglio da terra. E' la Gibilterra.
Sono già diventata un'abitudinaria nelle viuzze di questa colonia anglossassone.
Al mattino prendo due cup of coffee, di quello black, mentre gli altri tavolini del locale sopra il molo, tintinnano di bacon e burri spalmati sui tost. Mi piace il rumore che fanno gli inglesi a colazione. Mi piace il sole che spunta dalle vetrate di plastica del piccolo locale. Il mio equipaggio dorme ancora, dorme del sonno del giusto. Il mare di Alboran ha sfiancato i corpi, il riposo ci ha dotato di uno spirito migliore.
C'è un cielo celeste. Io penso che sia un cielo felice, ma il cielo prende sempre le sembianze di ciò che ci frulla dentro la carne.
Dove siamo? Perchè al fondo del continente europeo sembra di essere a Londra?
Perché dietro le piccole case del marina bay i palazzi alti e lucenti sembrano i trompe d'oeil disegnati da un artista di seconda mano?
Che confine labile questo che ci separa dal mondo reale.
Siamo a Gibilterra. Piove di nuovo. Andiamo in giro con le ceratte Musto, infradito e pantaloni arricciati sulle ginocchia. La gente normale sembra ignorare l'esistenza delle onde di Alboran.
Il Two Moons arriva da un mondo che non esiste.
Provenire dal mare significa non avere passato.
Perché nessuno può conoscerlo come l'hai conosciuto tu.
Pochi secondi. I fanali di via del Two Moons li vedo spuntare sui bordi dell'ingresso del porto. Eccoli, dico. Mario si sveglia. Il Two Moons attracca sulla banchina dell'ultima darsena di Malaga. Le nostre valigie sono li, sul molo in cemento bagnato. I marinai del peschereccio accanto li vedo guardarci da dietro gli oblò mentre saltiamo a bordo. Pochi secondi. Superato il molo di sopraflutto siamo già dentro le onde di Alboran. Il vento da est sta aumentando. La Spagna è già altrove.
Il mare ci inghiotte, Vik. Onde al traverso, onde da dietro, onde da ovunque. Ci nascondono di molti metri sotto l'orizzonte.
Non ci sono perimetri di terre oltre i bordi del mare. Passa una notte. L'alba è dietro le nubi. Capo Europa arriva soltanto quando siamo a mezzo miglio da terra. E' la Gibilterra.
Sono già diventata un'abitudinaria nelle viuzze di questa colonia anglossassone.
Al mattino prendo due cup of coffee, di quello black, mentre gli altri tavolini del locale sopra il molo, tintinnano di bacon e burri spalmati sui tost. Mi piace il rumore che fanno gli inglesi a colazione. Mi piace il sole che spunta dalle vetrate di plastica del piccolo locale. Il mio equipaggio dorme ancora, dorme del sonno del giusto. Il mare di Alboran ha sfiancato i corpi, il riposo ci ha dotato di uno spirito migliore.
C'è un cielo celeste. Io penso che sia un cielo felice, ma il cielo prende sempre le sembianze di ciò che ci frulla dentro la carne.
Dove siamo? Perchè al fondo del continente europeo sembra di essere a Londra?
Perché dietro le piccole case del marina bay i palazzi alti e lucenti sembrano i trompe d'oeil disegnati da un artista di seconda mano?
Che confine labile questo che ci separa dal mondo reale.
Siamo a Gibilterra. Piove di nuovo. Andiamo in giro con le ceratte Musto, infradito e pantaloni arricciati sulle ginocchia. La gente normale sembra ignorare l'esistenza delle onde di Alboran.
Il Two Moons arriva da un mondo che non esiste.
Provenire dal mare significa non avere passato.
Perché nessuno può conoscerlo come l'hai conosciuto tu.
giovedì 25 novembre 2010
Direzioni e distanze
Etichette:
gerardo mercatore,
mare,
oceano,
traversata,
traversata atlantica,
vela
L'obiettivo che Mercatore si era prefissato era di realizzare una mappa che i marinai potessero utilizzare e sulla quale una linea retta restasse tale anche in mare. Gerardo enunciò il progetto in latino, in un riquadro esplicativo della mappa mondiale che finalmente produsse nel 1569: la proiezione, diceva, "dispiega su un piano la superficie del globo, in modo che i luoghi si trovino nella corretta posizione l'uno rispetto all'altro, per quanto riguarda sia le direzioni che le distanze, e con le corrette indicazioni di latitudine e longitudine". Il suo intento non era solo quello di aggiornare la raffigurazione corrente del pianeta, ma di produrre un nuovo tipo di mappa, con una nuova finalità, utile nella stessa misura a studiosi e a marinai, che rappresentasse la reale forma dei continenti con una distorsione minima.
Non solo una nuova versione, ma una nuova visione del mondo. (Andrew Taylor, "Il mondo di Mercatore").
I sogni si fanno
giovedì 11 novembre 2010
Passaggio intermedio
Etichette:
vela sifnos oceano traversata
C'è una vela in arrivo, striscia sul fronte grigio scuro del solito orizzonte, quello a cui si torna quando il viaggio è finito. Quello sopra il quale si sogna prima di riprendere il largo. La mia veranda sta sul bordo del mare. Offre occasioni incredibili di fermezza vagheggiante. La vela viene da Sifnos e sparirà domani; ha come ultima destinazione il nuovo mondo. Vado a prendergli le cime di poppa di questa pausa in mezzo alla via.
giovedì 7 ottobre 2010
Bruma
Etichette:
bruma d'autunno amy lowell
Dicono che nella Bruma d'autunno Amy Lowell si domandi
è una libellula o una foglia d'acero/ che si sta posando dolcemente sull'acqua?
dicono: fa lo stesso, il risultato non cambia.
dicono: preparatevi a tutto; qualunque sarà la risposta
voi l'amerete.
è una libellula o una foglia d'acero/ che si sta posando dolcemente sull'acqua?
dicono: fa lo stesso, il risultato non cambia.
dicono: preparatevi a tutto; qualunque sarà la risposta
voi l'amerete.
martedì 5 ottobre 2010
Fine stagione
L'autunno di Punta Ala è desolato e buio a quest'ora. Il comandante è via per fiere e ritrovi di amici, il marinaio sbarcato da tempo. E' tempo adesso di pensare con più concretezza ai mesi che verranno, alle nuove destinazioni, a nuove navigazioni che saranno speriamo. Tutto è nuovo, da scoprire, da rivalutare, da prendere come un morso di cibo sconosciuto che si assapora per la prima volta.
Poco vento, aria frizzante, la solitudine impagabile, il pensiero corre avanti e indietro, ora attratto dalle morbide cose del pomeriggio appena trascorso, ora verso colonne d'Ercole da varcare nei prossimi tempi.
Ha scritto qualcuno che il mare è piccolo e io confermo, per questo viene voglia di vederlo tutto, sino in fondo, sin dove finisce e comincia la baia. Me lo insegna Mercatore che si può dare un nome a tutto e inciderlo sulle lastre di una mappa del mondo. Lo insegna lui che si può raggiungere qualunque geografia e dove non tocca lo sguardo, prolungare con dettagliata immaginazione.
Qui è l'autunno ed è una bella stagione.
Poco vento, aria frizzante, la solitudine impagabile, il pensiero corre avanti e indietro, ora attratto dalle morbide cose del pomeriggio appena trascorso, ora verso colonne d'Ercole da varcare nei prossimi tempi.
Ha scritto qualcuno che il mare è piccolo e io confermo, per questo viene voglia di vederlo tutto, sino in fondo, sin dove finisce e comincia la baia. Me lo insegna Mercatore che si può dare un nome a tutto e inciderlo sulle lastre di una mappa del mondo. Lo insegna lui che si può raggiungere qualunque geografia e dove non tocca lo sguardo, prolungare con dettagliata immaginazione.
Qui è l'autunno ed è una bella stagione.
mercoledì 15 settembre 2010
Solvenze
Palermo un anno fa era città nuova di palazzi; discutevano uomini in affari nelle sale affrescate della provincia, i ticchettii delle tastiere rimbalzavano sulle pareti bianche degli stanzoni inventati per un giornale morto. Niente odori di mercati, non c'erano meuza nè panelle o sfinciuni, arancini, frittura, interiora vendute all'angolo di strade e i barbeque alla Vucciria furono visioni notturne troppo remote o soltanto di ieri. Come sarebbe apparsa Ballarò nell'ora d'aria non l'avrei saputa immaginare allora, quando Palermo non era stata niente di tutto il vapore di pentole con patate bollite che ti lasci adesso ai fianchi passare.
Siamo venuti dal largo. Abbiamo ingoiato le vele dopo onde nere e ventose sopra le correnti di Messina, accanto a traghetti prepotenti che passano interminabili davanti alla prua.
Siamo giunti in banchina, salati digiuni di piedi e sanpietrini, di passeggìo umano, di pesce venduto ai banconi. Avremo sputato un po' del nostro sangue per farci sorprendere nei vicoli di una città, e dopo aver aspettato che la grandine si sciogliesse sull'uscio della casa marina spremendoci per la voglia di andare abbiamo toccato terra risolvendoci per un poco dal mare. Il mare è disciolto alle spalle.
Elenchi di progetti passati si riaffacciano ai davanzali ma ho fogliole di basilico nuovo che spuntano dentro un vecchio vasetto.
"Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare./ Alla sera, che l'acqua si stende slavata/ e sfumata nel nulla, l'amico la fissa/ e io fisso l'amico e non parla nessuno". Cesare Pavese, Gente Spaesata
Siamo venuti dal largo. Abbiamo ingoiato le vele dopo onde nere e ventose sopra le correnti di Messina, accanto a traghetti prepotenti che passano interminabili davanti alla prua.
Siamo giunti in banchina, salati digiuni di piedi e sanpietrini, di passeggìo umano, di pesce venduto ai banconi. Avremo sputato un po' del nostro sangue per farci sorprendere nei vicoli di una città, e dopo aver aspettato che la grandine si sciogliesse sull'uscio della casa marina spremendoci per la voglia di andare abbiamo toccato terra risolvendoci per un poco dal mare. Il mare è disciolto alle spalle.
Elenchi di progetti passati si riaffacciano ai davanzali ma ho fogliole di basilico nuovo che spuntano dentro un vecchio vasetto.
"Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare./ Alla sera, che l'acqua si stende slavata/ e sfumata nel nulla, l'amico la fissa/ e io fisso l'amico e non parla nessuno". Cesare Pavese, Gente Spaesata
lunedì 6 settembre 2010
Dileguando le stelle nel mare
Etichette:
Egeo,
estate,
Grecia,
imbarco,
ionio,
leuca,
mare,
navigare,
Pelopponeso,
stagione,
tirreno,
vela
E' un volo, non c'è tempo, io vedo il mare scivolarmi sotto, saltarmi addosso, mi stringo alla trinchetta piegata sulla prua, lo scafo sbandato, sono nel blu, sono ancora a bordo, penso: non è cosa da niente, penso: non c'è paura, perché? è già tramonto, è già alba, alle spalle l'ultimo capo del Pelopponeso, una stagione, l'affanno di ogni sveglia, dei mezzogiorno, di ogni cena, passa il meltemi che soffia da nord, arriva ancora ma qui si dice tramontana.
Abbiamo navigato la luna, una luna intera, siamo tornati all'inizio, siamo soli, non abbiamo parole reciproche, niente da sostanziare, solo a ciascuno la propria porzione di mare, al pomeriggio, alla sera, al mattino, fin quando non so, non pongo domande, la navigazione è senza destino, arriveremo quando sarà. Abbiamo ancorato l'alba ai silenzi, accanto a una stella marina, l'ho vista dall'alto, il mare non era un ostacolo. Abbiamo ingoiato lo Ionio, dileguato l'Egeo, viriamo al Tirreno, ci sarà un nuovo accampamento di stelle stanotte sopra le nostre teste, gli ormeggi sono già volati via, Leuca è la luce del tramonto, avremo altri porti da commentare.
Lo so. L'estate è passata ed io sembravo scomparsa, ma stavo dentro un barattolo nel mare e galleggiavo senza fiatare, guardavo soltanto, non c'era tempo per altro, ed era un sogno, era una follia e l'inferno rincorreva le stelle e le stelle cadevano giù e c'erano troppe stelle per dirle tutte, troppa emozione e già si faceva giorno, mentre ora, di nuovo il giorno finisce e finisce la terra.
Il largo. Il largo da navigare. Io sogno di nuovo, scusate, m'immergo, scompaio, ritorno alla stella che scende, la vedo adesso, ma fra poco si rompe nel mare, una cosa così complicata che non posso più starne a parlare.
Abbiamo navigato la luna, una luna intera, siamo tornati all'inizio, siamo soli, non abbiamo parole reciproche, niente da sostanziare, solo a ciascuno la propria porzione di mare, al pomeriggio, alla sera, al mattino, fin quando non so, non pongo domande, la navigazione è senza destino, arriveremo quando sarà. Abbiamo ancorato l'alba ai silenzi, accanto a una stella marina, l'ho vista dall'alto, il mare non era un ostacolo. Abbiamo ingoiato lo Ionio, dileguato l'Egeo, viriamo al Tirreno, ci sarà un nuovo accampamento di stelle stanotte sopra le nostre teste, gli ormeggi sono già volati via, Leuca è la luce del tramonto, avremo altri porti da commentare.
Lo so. L'estate è passata ed io sembravo scomparsa, ma stavo dentro un barattolo nel mare e galleggiavo senza fiatare, guardavo soltanto, non c'era tempo per altro, ed era un sogno, era una follia e l'inferno rincorreva le stelle e le stelle cadevano giù e c'erano troppe stelle per dirle tutte, troppa emozione e già si faceva giorno, mentre ora, di nuovo il giorno finisce e finisce la terra.
Il largo. Il largo da navigare. Io sogno di nuovo, scusate, m'immergo, scompaio, ritorno alla stella che scende, la vedo adesso, ma fra poco si rompe nel mare, una cosa così complicata che non posso più starne a parlare.
martedì 10 agosto 2010
Egeo ancora
Penso a questo spazio sempre, specie ora. Poi non ci arrivo perché seguo le vicissitudini dell'ora locale, Dodecanneso, Simi-Rodi, Rodi-Simi. Non c'è vela, non c'è vento, non c'è ombra che conforti l'equipaggio.
L'aria forte l'abbiamo lasciata il mese scorso. Ora comincia l'asfissia e non si intravede una fine concreta. Il comandante dice: non c'è tempo da perdere, è d'uopo esser lesti, necessaria la perfezione. Il comandante ordina: appennelliamo l'ancora, diamo fondo qui, diamo fondo li, salpiamo, pranziamo, filiamo un cavo di poppa, molliamo, silenzio, ordine, accidenti, lavastoviglie, lavatrice, non stendere, non sbattere, non dire falsa testimonianza, l'aria condizionata, il pensiero condizionato, l'umore condizionato, la prua, la poppa, diamo fondo, salpiamo, apriamo le vele, è tutto pronto per sbandare?
Il marinaio guarda il mare, sogna cose non sue, ha la testa piena di tutto, vorrebbe svuotarla, piscia nel gavone dell'ancora, non sa niente di come sta girando il mondo fuori dal mare, e ciò sembra tanto, ma è niente.
Siamo in pieno Egeo, l'abbiamo attraversato, sporcando i sogni del passato con un presente acerbo, malandato, splendente di novità, come sempre il presente ne porta. Di libri possiamo leggerne meno, leggiamo di letteratura e salti mortali, leggiamo di diritto, obbligazioni, persone fisiche e giuridiche, leggiamo a volte con la testa altrove, a volte abbiamo la testa sui libri e non sull'ancora che salpa. A volte l'ancora s'incastra ai fondali, a volte ricevere ordini suscita disordini. E' una navigazione teatrale, psicologica, molto, molto superficiale, meravigliosa ancora. Il nostro navigare è il luogo in cui sveliamo i segreti, li assopiamo, facciamo finta di niente, come un bambino già consapevole dell'eleganza civile, che si scaccoli comunque con due dita nel naso senza dare nell'occhio.
Siamo dei bugiardi con fondi di verità dentro il bicchiere, siamo gente stizzosa, allegra, malinconica, sensuale, audace, gente che ha del coraggio da vendere quando si tratta di celare la propria codardia. Facciamo programmi e non sappiamo su quale pentagramma accordarli. E non sappiamo scrivere. Sappiamo solo copiare, senza essere certi della nostra innocenza, e ce ne andiamo così. Qualcuno lacrima a prua, ma in breve il meltemi o un vento qualunque, un vento senza nome e senza letteratura, asciuga in fretta il pianto, vento vigliacco, dannato, non sa quanto tempo abbiamo impiegato a fabbricar lacrime, non sa quanto tempo è occorso per costruire il dolore di cui ci lagnamo. Ce ne andiamo domani e non sappiamo come rammaricarci stasera, vorremmo festeggiare l'addio con un pianto di disperazione e facendo l'amore piangendo sopra un sorriso senza destinazione, ma non abbiamo le stanze adatte per farlo, anche se siamo padroni di tutto.
L'equipaggio intanto non riesce a prendere sonno e brandeggia, poichè la branda, il giaciglio ai nostri sogni penzola da un lato e dall'altro in cerca di quiete. Ha guardato la luna nascere, crescere, levarsi e calare ancora, rimpicciolirsi, sudare come se il sole la importunasse scandalosamente.
E' possibile che siano trascorsi due mesi e la veranda del mio lungomare appartenga ad altri. E' possibile che abbia dimenticato qualcosa o qualcuno, ma l'oblio è solo accidentale e temporaneo. Una tazzina di ceramica sotto la finestra sporca di caffè, di un caffè lontano, di chissà quale mattino appena tiepido e piacevole, quand'era ancora primavera e non pensavo ad ordini e disordini. La primavera è degenerata da tempo. Non c'è posto migliore in cui stare.
L'aria forte l'abbiamo lasciata il mese scorso. Ora comincia l'asfissia e non si intravede una fine concreta. Il comandante dice: non c'è tempo da perdere, è d'uopo esser lesti, necessaria la perfezione. Il comandante ordina: appennelliamo l'ancora, diamo fondo qui, diamo fondo li, salpiamo, pranziamo, filiamo un cavo di poppa, molliamo, silenzio, ordine, accidenti, lavastoviglie, lavatrice, non stendere, non sbattere, non dire falsa testimonianza, l'aria condizionata, il pensiero condizionato, l'umore condizionato, la prua, la poppa, diamo fondo, salpiamo, apriamo le vele, è tutto pronto per sbandare?
Il marinaio guarda il mare, sogna cose non sue, ha la testa piena di tutto, vorrebbe svuotarla, piscia nel gavone dell'ancora, non sa niente di come sta girando il mondo fuori dal mare, e ciò sembra tanto, ma è niente.
Siamo in pieno Egeo, l'abbiamo attraversato, sporcando i sogni del passato con un presente acerbo, malandato, splendente di novità, come sempre il presente ne porta. Di libri possiamo leggerne meno, leggiamo di letteratura e salti mortali, leggiamo di diritto, obbligazioni, persone fisiche e giuridiche, leggiamo a volte con la testa altrove, a volte abbiamo la testa sui libri e non sull'ancora che salpa. A volte l'ancora s'incastra ai fondali, a volte ricevere ordini suscita disordini. E' una navigazione teatrale, psicologica, molto, molto superficiale, meravigliosa ancora. Il nostro navigare è il luogo in cui sveliamo i segreti, li assopiamo, facciamo finta di niente, come un bambino già consapevole dell'eleganza civile, che si scaccoli comunque con due dita nel naso senza dare nell'occhio.
Siamo dei bugiardi con fondi di verità dentro il bicchiere, siamo gente stizzosa, allegra, malinconica, sensuale, audace, gente che ha del coraggio da vendere quando si tratta di celare la propria codardia. Facciamo programmi e non sappiamo su quale pentagramma accordarli. E non sappiamo scrivere. Sappiamo solo copiare, senza essere certi della nostra innocenza, e ce ne andiamo così. Qualcuno lacrima a prua, ma in breve il meltemi o un vento qualunque, un vento senza nome e senza letteratura, asciuga in fretta il pianto, vento vigliacco, dannato, non sa quanto tempo abbiamo impiegato a fabbricar lacrime, non sa quanto tempo è occorso per costruire il dolore di cui ci lagnamo. Ce ne andiamo domani e non sappiamo come rammaricarci stasera, vorremmo festeggiare l'addio con un pianto di disperazione e facendo l'amore piangendo sopra un sorriso senza destinazione, ma non abbiamo le stanze adatte per farlo, anche se siamo padroni di tutto.
L'equipaggio intanto non riesce a prendere sonno e brandeggia, poichè la branda, il giaciglio ai nostri sogni penzola da un lato e dall'altro in cerca di quiete. Ha guardato la luna nascere, crescere, levarsi e calare ancora, rimpicciolirsi, sudare come se il sole la importunasse scandalosamente.
E' possibile che siano trascorsi due mesi e la veranda del mio lungomare appartenga ad altri. E' possibile che abbia dimenticato qualcosa o qualcuno, ma l'oblio è solo accidentale e temporaneo. Una tazzina di ceramica sotto la finestra sporca di caffè, di un caffè lontano, di chissà quale mattino appena tiepido e piacevole, quand'era ancora primavera e non pensavo ad ordini e disordini. La primavera è degenerata da tempo. Non c'è posto migliore in cui stare.
giovedì 10 giugno 2010
Estate
Si metta a verbale che l'estate è cominciata stanotte. Ma l'estate è in gerundio. Sta nascendo tutta d'un soffio mentre compilo elenchi puntati di occorrenze e la finestra dello studiolo è per la prima volta aperta. Le vie di Sassari vecchia odorano di Castellorizo e di Zante. I lampioni notturni colorano in arancione le strade strette di pietra; il bordo basso dei muri. Le case fanno silenzio. C'è odore di umido sottile, ancora da venire. Per adesso è solo caldo serale, insolito. Aria tiepida in arrivo da sud. Deve essere così. Il ritardo è pazzesco, ma tocca perdonarlo. Il cielo esprime il suo verdetto e poi si manifesta. E sul mare svolazza la tenda leggera e trasparente della cucina e la polvere dei pilastri sul pavimento e su tutti i mobili s'alza.
Attende la barca ai pontili di un'altra sponda lontana, di partire. S'incroceranno le rotte o si terranno a distanza, approderanno sugli stessi moli in tempi diversi. I bordi dei pontili odorano già di gelsomino da qualche parte. E chissà se il cappello di paglia del guardiano di un porto del sud sta richiamando prue di naviganti al suo ormeggio. Il caldo è arrivato senza portare tappeti azzurri di velelle sotto i balconi. Sono già quasi tutti partiti senza avvisare. Ultimi minuti ancora prima del gong ufficiale: prepararsi.
Attende la barca ai pontili di un'altra sponda lontana, di partire. S'incroceranno le rotte o si terranno a distanza, approderanno sugli stessi moli in tempi diversi. I bordi dei pontili odorano già di gelsomino da qualche parte. E chissà se il cappello di paglia del guardiano di un porto del sud sta richiamando prue di naviganti al suo ormeggio. Il caldo è arrivato senza portare tappeti azzurri di velelle sotto i balconi. Sono già quasi tutti partiti senza avvisare. Ultimi minuti ancora prima del gong ufficiale: prepararsi.
sabato 29 maggio 2010
Candidati
Etichette:
candidati,
città,
elezioni amministrative,
politica,
porto torres,
sindaco
La mia macchina s'è inceppata sul lungomare della città. Non sapeva più da che parte pecorrerlo. I sensi sono di nuovo confusi. Unici e in tutti i versi.
Ho deciso di prendere questo ennesimo cambio di senso come la volontà degli amministratori di mantenerci cittadini attenti. E io lo sono stata. Alzando le braccia repentinamente due notti fa in segno di allarme - il mio amico Simone lo sa - ho impedito che un disgraziato in contromano inconsapevole andasse a sbattere contro una panda che veniva nel senso giusto. Ho i riflessi più vigili della municipale.
Voglio dunque un sindaco che lotti contro i radicali liberi. Che lotti contro l'oblio. Che seppellisca i resti obsoleti di una città antica e tenga vivo il ricordo di un'agonia industriale. Voglio un sindaco che ami fare grandi discorsi. Che parli, che parli. Che dica tutto ciò che va detto. E che non si scomodi troppo nel letto la sera a progettare il giorno che viene. Voglio un consigliere che badi alle cose concrete nella vita e mangi porcetto fin quanto può.
Voglio affacciarmi domani e trovare un nuovo senso di marcia con tanti maialini che corrono e grugniscono in tutte le direzioni. Voglio tenermi confusa. Restare viva. Galleggiare.
Voglio avere tante luminarie a Natale, che mi illuminino il sorriso se mai dovessero trovarmelo spento.
Voglio dire che la mia città ha tante navi in porto perché la mia è una città importante. Anche se poi s'è alzato il grecale e le navi sono rimaste in trappola.
Voglio avere un parco che ho sentito chiamare "circo mendes", che almeno ci facessero il circo. Invece mi piace che se ne stia là, zitto zitto in disparte, come fosse il giardino segreto di un re fantasma.
Io voglio svegliarmi domani e trovare un mare nero. Sporco ma che nessuno me lo dica. Voglio insozzarmi tutta di policlorobifenile e affogarmici i pensieri dentro. Voglio avere una torre occupata e tante croci a mo' di cimitero inglese, che visto così almeno il prato verde fa la sua figura. Meglio degli scavi archeologici polverosi che c'erano un tempo.
A me la polvere non piace. Io voglio una città pulita senza niente dentro. Una città coi bordi falciati, ma solo fino a un certo punto, che anche l'erba alta c'ha il suo perché. Una città fatta senz'anima. Una città a cui non devo pensare più.
Una città di cui non posso più immaginare il litorale. Ché è stato tagliato via, e dopo il fiume non avanza altro.
Una città il cui ponte che resta non porti altrove.
Candidati, donne e uomini candidi di intenzioni e speranza. Siete tanti quest'anno. E per vedervi tutti mi tenevo a distanza dalla costa stasera. E vi sognavo dal largo.
La vostra città ha già provato tanti sensi di marcia. Ha venduto spiagge per rifarsene qualcuna più in la. Ha annerito i suoi cieli e cantato in migliaia di processioni. Ha pianto un giorno per ciclisti disgraziati dimenticandoli tutta la vita. La vostra città ha storto la bocca sempre e per vincere non sarà necessario promettere di restituire una città candida.
Mi viene un poco da storcere la bocca pure a me.
Ma io sono solo uno scoglio che tenta di tenersi asciutto.
Io sono come questa città e forse domani vi darò un voto una volta ancora sperando di ottenere nuove spugnette e mocio vileda per tutti.
Ho deciso di prendere questo ennesimo cambio di senso come la volontà degli amministratori di mantenerci cittadini attenti. E io lo sono stata. Alzando le braccia repentinamente due notti fa in segno di allarme - il mio amico Simone lo sa - ho impedito che un disgraziato in contromano inconsapevole andasse a sbattere contro una panda che veniva nel senso giusto. Ho i riflessi più vigili della municipale.
Voglio dunque un sindaco che lotti contro i radicali liberi. Che lotti contro l'oblio. Che seppellisca i resti obsoleti di una città antica e tenga vivo il ricordo di un'agonia industriale. Voglio un sindaco che ami fare grandi discorsi. Che parli, che parli. Che dica tutto ciò che va detto. E che non si scomodi troppo nel letto la sera a progettare il giorno che viene. Voglio un consigliere che badi alle cose concrete nella vita e mangi porcetto fin quanto può.
Voglio affacciarmi domani e trovare un nuovo senso di marcia con tanti maialini che corrono e grugniscono in tutte le direzioni. Voglio tenermi confusa. Restare viva. Galleggiare.
Voglio avere tante luminarie a Natale, che mi illuminino il sorriso se mai dovessero trovarmelo spento.
Voglio dire che la mia città ha tante navi in porto perché la mia è una città importante. Anche se poi s'è alzato il grecale e le navi sono rimaste in trappola.
Voglio avere un parco che ho sentito chiamare "circo mendes", che almeno ci facessero il circo. Invece mi piace che se ne stia là, zitto zitto in disparte, come fosse il giardino segreto di un re fantasma.
Io voglio svegliarmi domani e trovare un mare nero. Sporco ma che nessuno me lo dica. Voglio insozzarmi tutta di policlorobifenile e affogarmici i pensieri dentro. Voglio avere una torre occupata e tante croci a mo' di cimitero inglese, che visto così almeno il prato verde fa la sua figura. Meglio degli scavi archeologici polverosi che c'erano un tempo.
A me la polvere non piace. Io voglio una città pulita senza niente dentro. Una città coi bordi falciati, ma solo fino a un certo punto, che anche l'erba alta c'ha il suo perché. Una città fatta senz'anima. Una città a cui non devo pensare più.
Una città di cui non posso più immaginare il litorale. Ché è stato tagliato via, e dopo il fiume non avanza altro.
Una città il cui ponte che resta non porti altrove.
Candidati, donne e uomini candidi di intenzioni e speranza. Siete tanti quest'anno. E per vedervi tutti mi tenevo a distanza dalla costa stasera. E vi sognavo dal largo.
La vostra città ha già provato tanti sensi di marcia. Ha venduto spiagge per rifarsene qualcuna più in la. Ha annerito i suoi cieli e cantato in migliaia di processioni. Ha pianto un giorno per ciclisti disgraziati dimenticandoli tutta la vita. La vostra città ha storto la bocca sempre e per vincere non sarà necessario promettere di restituire una città candida.
Mi viene un poco da storcere la bocca pure a me.
Ma io sono solo uno scoglio che tenta di tenersi asciutto.
Io sono come questa città e forse domani vi darò un voto una volta ancora sperando di ottenere nuove spugnette e mocio vileda per tutti.
domenica 2 maggio 2010
Sposa
Avevamo meno della metà degli anni che abbiamo, ma il tempo confonde. Ci muovevamo come gatte dagli occhi lunghi e il manto a vapore. Restavamo fino a tardi a parlare. Il cielo assisteva e si lasciava commentare docile alle suggestioni. Eri un personaggio di tutti i tempi. Eri una dama dell'ottocento francese, o un'eroina della rivoluzione, eri Cat Woman ma ti ho trovato fra le scritture di Milan Kundera ed ogni volta che penso a Sabina e Tomàs ho l'onirica sensazione che ci sia stata anche tu fra le vie di Praga in quel tempo.
Le maniche del tuo abito arrivano quasi fino al pavimento. Una falena gigante agita le ali nella sala da ballo. Le danzatrici fanno vibrare i culi tra i veli. Ti girano attorno battendo le mani. In gran segreto hanno già filato la ragnatela che scompiglierai la prima notte di nozze. Gli uomini sono mulini a vento che saltano intanto come canguri a tempo. Tu eri la moretta con gli occhi verdi. Prendevi aliscafi segreti e planavi concreta. Leggevi molti libri tra cui Stephen King ed eri un portento a parlare francese. Me lo ricordo bene.
Ti porgo l'anello e ti unisci all'uomo fantastico. Sei lacrimante e forte. Hai gli occhi lucenti che ti ho sempre trovato.
venerdì 5 marzo 2010
mercoledì 17 febbraio 2010
"Fidanzata ufficialmente" da Facebook
Etichette:
aggiornare la situazione sentimentale,
amore,
apocalittici,
carnevale,
commenti,
facebook,
fidanzato ufficiale,
identità,
integrati,
maschera,
matrimonio,
single,
società virtuale
Quest'anno non sono stata al carnevale dionisiaco di Bosa, non a Mamoiada e nemmeno in piazza San Marco tra gli abiti del '700 veneziano. A dire il vero non ho nemmeno partecipato a festini privati né a balli in costume. Eppure a mascherarmi non ho rinunciato. Il mio abito l'ho preso su Facebook.
Dopo aver scelto dal menù delle impostazioni quale indossare, ho spuntato la casella e in un batter d'ali di falena, mi sono vestita da "ufficialmente fidanzata". La validità e gli effetti sono stati immediati.
Una cosa da brividi. Intanto perché ho realizzato che il modo migliore per restare single è quello di aggiornare la propria situazione sentimentale in "fidanzata". Tutti ti credono, per dinci! E se non ti affretti a ristabilire la realtà delle cose rischi di restare davvero fuori dal giro, come notava il primo commentatore al mio status. Mi dispiace però deludere tutti coloro, anche persone che non vedo né frequento da tempo, che senza soffermarsi troppo sulla meraviglia mi avevano già fatto ufficialissimi auguri.
Qualche amico ha persino telefonato la sera.
Il fatto è che Facebook funziona meglio di un anello al dito. Più evidente, più immediatamente raggiungente di una qualsiasi partecipazione di nozze. E anche nel caso di matrimonio, avete pensato che fosse possibile fare come questi due che aggiornarono il cambio di status direttamente all'altare, persino prima che il prete pronunciasse le fatidiche parole?
Ma gli effetti non stanno solo nei commenti.
Il brivido è anche questo. Hai come un'idea di aver esagerato. La maschera va in eccesso, rischi che ti si appiccichi addosso come pelle vera. C'è una strana sensazione nel percepire persino il proprio corpo, quando vai in giro per le strade dopo aver comunicato al tuo social network di fiducia che sei ufficialmente fidanzato. Sei quasi indotto a credere tu per primo a ciò che hai comunicato al mondo e che il mondo ha preso per buono. La sorpresa è tale che d'improvviso diventi estraneo a te stesso. E in un'epoca in cui il matrimonio è solo una fra le varie opzioni di vita amorosa comune, quale termine più formale ed ampolloso di "fidanzato ufficiale"? Roba da corredo e richiesta di mano al padre della sposa futura.
La società virtuale è un'estensione di quella reale, un potere aggiunto. I commentatori dicono "???", dicono "uau!", dicono "auguri!". Persino gli amici più stretti. Spunti una casella e sei altro.
Non sono un'apocalittica e anzi ho capito che ad integrarsi Facebook funziona, eccome. Ma Facebook ha anche questo potere: di richiamarti alla tua vera identità. Troppo difficile restare appesi a un etichetta fasulla.
Adesso basta quindi. Le definizioni ufficiali mi portano orticaria, dal vivo e dal virtuale.
Girerò il mio stato sentimentale alla casella dell'oblio. La narrazione amorosa di me stessa resterà una questione privata. Non saprete mai più da Facebook se ho il fidanzato o se resto zitella.
(Ps. ho ovviamente considerato la possibilità che non ve ne freghi un benedetto piffero)
Dopo aver scelto dal menù delle impostazioni quale indossare, ho spuntato la casella e in un batter d'ali di falena, mi sono vestita da "ufficialmente fidanzata". La validità e gli effetti sono stati immediati.
Una cosa da brividi. Intanto perché ho realizzato che il modo migliore per restare single è quello di aggiornare la propria situazione sentimentale in "fidanzata". Tutti ti credono, per dinci! E se non ti affretti a ristabilire la realtà delle cose rischi di restare davvero fuori dal giro, come notava il primo commentatore al mio status. Mi dispiace però deludere tutti coloro, anche persone che non vedo né frequento da tempo, che senza soffermarsi troppo sulla meraviglia mi avevano già fatto ufficialissimi auguri.
Qualche amico ha persino telefonato la sera.
Il fatto è che Facebook funziona meglio di un anello al dito. Più evidente, più immediatamente raggiungente di una qualsiasi partecipazione di nozze. E anche nel caso di matrimonio, avete pensato che fosse possibile fare come questi due che aggiornarono il cambio di status direttamente all'altare, persino prima che il prete pronunciasse le fatidiche parole?
Ma gli effetti non stanno solo nei commenti.
Il brivido è anche questo. Hai come un'idea di aver esagerato. La maschera va in eccesso, rischi che ti si appiccichi addosso come pelle vera. C'è una strana sensazione nel percepire persino il proprio corpo, quando vai in giro per le strade dopo aver comunicato al tuo social network di fiducia che sei ufficialmente fidanzato. Sei quasi indotto a credere tu per primo a ciò che hai comunicato al mondo e che il mondo ha preso per buono. La sorpresa è tale che d'improvviso diventi estraneo a te stesso. E in un'epoca in cui il matrimonio è solo una fra le varie opzioni di vita amorosa comune, quale termine più formale ed ampolloso di "fidanzato ufficiale"? Roba da corredo e richiesta di mano al padre della sposa futura.
La società virtuale è un'estensione di quella reale, un potere aggiunto. I commentatori dicono "???", dicono "uau!", dicono "auguri!". Persino gli amici più stretti. Spunti una casella e sei altro.
Non sono un'apocalittica e anzi ho capito che ad integrarsi Facebook funziona, eccome. Ma Facebook ha anche questo potere: di richiamarti alla tua vera identità. Troppo difficile restare appesi a un etichetta fasulla.
Adesso basta quindi. Le definizioni ufficiali mi portano orticaria, dal vivo e dal virtuale.
Girerò il mio stato sentimentale alla casella dell'oblio. La narrazione amorosa di me stessa resterà una questione privata. Non saprete mai più da Facebook se ho il fidanzato o se resto zitella.
(Ps. ho ovviamente considerato la possibilità che non ve ne freghi un benedetto piffero)
sabato 13 febbraio 2010
Il paesaggio di oggi
Ecco. Era semplicemente tutto diverso. Non abbiamo fatto nulla noi, nient'altro che svegliarci ieri dai letti soliti e chi prima, chi dopo, spalancare gli occhi, ancora cisposi, ancora presi nel retro dei sogni compiuti e lasciati, ancora con la solita tazzina di caffè in mano o già sulla strada dei pc sopra la scrivania, o pronti per andare a scuola, a lavoro, all'asilo a portare i figlioli.
Ecco, il cane ha bussato con le zampe alla porta di casa e facendolo entrare abbiamo capito. Aveva il manto bianco. Sulle finestre abbiamo avvicinato i nasi, col fianco della mano fredda abbiamo cancellato la nebbiolina sul vetro per guardare meglio. Eravamo increduli. Non abbiamo fatto altro che affacciarci e trovare un paesaggio diverso. La nostra città come il manto del cane, bianca, immobile, dentro il cotone.
La mia amica se ne stava in giro dalle sei e mezza ad esplorare questo luogo inventato in una notte.
La spiaggia, i tetti delle case, gli scogli alle Acque Dolci, le strade intatte ancora, le barche e i pontili, il Ponte Romano, le terme di Re Barbaro, i tubi del fenolo in dismissione, le bitte del molo industriale.
Chissà se le petroliere, languide e ormeggiate a due miglia dalla costa s'erano ricoperte anche loro.
Non abbiamo fatto niente ma tutto era cambiato. Un giorno solo, nell'unica notte sotto lo zero e vento immobile che non capitava da 25 anni. Nella vita degli studenti era la prima volta in assoluto.
E allora tutti in giro a scoprire, a vedere. Come sarà Balai? Si sarà ricoperto anche il delfino dello Scogliolungo? E la chiesetta lontana sarà più bianca? E il mare? Il mare? Come avrà reagito a questo candore inatteso?
Mamma svegliati! Svegliati! Guarda fuori dalla finestra!
Guarda i cani! Guarda i cani come corrono e fanno scompiglio lasciando tracce dove ancora nessuno era passato.
Bimbi! Andiamo presto! Andiamo! Facciamo un giro sul lungomare ma mettetevi guanti e stivaletti! Facciamo le foto dai! Facciamo mille fotografie di questo paesaggio sconosciuto. Chi l'avrebbe mai detto che questa sostanza immacolata sarebbe arrivata fin qui, fino a noi.
Ecco, oggi è tornata ogni cosa alla normalità. Abbiamo gli occhi fatti di vernice vecchia. Il cane ha il pelo di sempre. Lo spettacolo dalle finestre è già andato in onda, abbiamo perso la prima e l'ultima.
Ma cosa c'è di diverso dal paesaggio di ieri?
Perché non dovremmo essere in grado di avere occhi nuovi sempre?
La neve era una provocazione.
Come un amico in viaggio da un Paese lontano manda una cartolina augurandoci di vedere presto anche noi quel paesaggio dal vivo.
La neve ha detto: "Ecco, guardate come vi faccio bella oggi la città. Domani potreste pensarci voi, per un giorno vi lascio disoccupati, semplicemente state a guardare. Ma domani...Domani cosa aspettate?"
Ieri era tutto diverso. Oggi gli uomini e le donne dovranno conservare diverso lo sguardo, tenere un sospiro di emozione sopra i vetri delle finestre, uscire fuori per scoprire qualcosa di nuovo, pensare: "Come sarà oggi il Ponte Romano? Come sarà Balai? Come sarà vedere la città dalla collina del Faro? Come potremmo immaginare anche oggi bello il nostro paesaggio e poi realizzarlo?"
Ecco, il cane ha bussato con le zampe alla porta di casa e facendolo entrare abbiamo capito. Aveva il manto bianco. Sulle finestre abbiamo avvicinato i nasi, col fianco della mano fredda abbiamo cancellato la nebbiolina sul vetro per guardare meglio. Eravamo increduli. Non abbiamo fatto altro che affacciarci e trovare un paesaggio diverso. La nostra città come il manto del cane, bianca, immobile, dentro il cotone.
La mia amica se ne stava in giro dalle sei e mezza ad esplorare questo luogo inventato in una notte.
La spiaggia, i tetti delle case, gli scogli alle Acque Dolci, le strade intatte ancora, le barche e i pontili, il Ponte Romano, le terme di Re Barbaro, i tubi del fenolo in dismissione, le bitte del molo industriale.
Chissà se le petroliere, languide e ormeggiate a due miglia dalla costa s'erano ricoperte anche loro.
Non abbiamo fatto niente ma tutto era cambiato. Un giorno solo, nell'unica notte sotto lo zero e vento immobile che non capitava da 25 anni. Nella vita degli studenti era la prima volta in assoluto.
E allora tutti in giro a scoprire, a vedere. Come sarà Balai? Si sarà ricoperto anche il delfino dello Scogliolungo? E la chiesetta lontana sarà più bianca? E il mare? Il mare? Come avrà reagito a questo candore inatteso?
Mamma svegliati! Svegliati! Guarda fuori dalla finestra!
Guarda i cani! Guarda i cani come corrono e fanno scompiglio lasciando tracce dove ancora nessuno era passato.
Bimbi! Andiamo presto! Andiamo! Facciamo un giro sul lungomare ma mettetevi guanti e stivaletti! Facciamo le foto dai! Facciamo mille fotografie di questo paesaggio sconosciuto. Chi l'avrebbe mai detto che questa sostanza immacolata sarebbe arrivata fin qui, fino a noi.
Ecco, oggi è tornata ogni cosa alla normalità. Abbiamo gli occhi fatti di vernice vecchia. Il cane ha il pelo di sempre. Lo spettacolo dalle finestre è già andato in onda, abbiamo perso la prima e l'ultima.
Ma cosa c'è di diverso dal paesaggio di ieri?
Perché non dovremmo essere in grado di avere occhi nuovi sempre?
La neve era una provocazione.
Come un amico in viaggio da un Paese lontano manda una cartolina augurandoci di vedere presto anche noi quel paesaggio dal vivo.
La neve ha detto: "Ecco, guardate come vi faccio bella oggi la città. Domani potreste pensarci voi, per un giorno vi lascio disoccupati, semplicemente state a guardare. Ma domani...Domani cosa aspettate?"
Ieri era tutto diverso. Oggi gli uomini e le donne dovranno conservare diverso lo sguardo, tenere un sospiro di emozione sopra i vetri delle finestre, uscire fuori per scoprire qualcosa di nuovo, pensare: "Come sarà oggi il Ponte Romano? Come sarà Balai? Come sarà vedere la città dalla collina del Faro? Come potremmo immaginare anche oggi bello il nostro paesaggio e poi realizzarlo?"
venerdì 12 febbraio 2010
domenica 17 gennaio 2010
Vele a Libeccio
La Terra si decise e parlò al Mare:
"Oggi ho voglia di soffiarti del vento, Mare. Sei d'accordo?"
"Fai come credi - disse il Mare – ma non chiedermi aiuto, oggi è domenica e sono a riposo"
La Terra scelse di soffiare il Libeccio così che il Mare non ebbe niente da fare, nemmeno gonfiarsi di onda.
"Lo senti come soffia?" chiese più tardi la Terra al Mare orgogliosa.
"Veramente io non sento nulla"
"Ma come - incalzò delusa la Terra - non senti come ti sviolina il vento sopra la pelle?"
"Ribadisco Terra, io non sento nulla. E mi sono ignoti i violini di cui parli"
"Oh insomma - si piccò la Terra - Possibile che fai proprio come la Luna? Anche tu nulla eh! Siete tutti uguali"
"Terra - disse il Mare annoiato - io non so che farci. La Luna giurò di non sentire nulla, a te e perfino al poeta. Perché dovrei io dirti cose diverse?"
"Andiamo Mare - disse la Terra materna - Sforzati un poco. Ti ho sollevato il Libeccio sopra la pancia e c'erano quattro esseri umani con le vele bianche che ti correvano addosso. Mandavano ululati al Cielo contenti. Dicevano di sentire violini nell'aria, suoni di sartie, raffiche festanti. E pur’io mi sento tutta ondeggiare”.
Il Mare restò impassibile alle insistenze della Terra:
"Terra, tu premi, ma io appena un solletico avvertivo al mattino. Ora più nulla. E se dici che gli esseri umani ululavano al Cielo, domanda a lui se non abbia sentito farfuglio"
"Al Cielo? Ma io col Cielo non riesco a parlare da anni. Prova a domandarglielo tu, che spesso ti confondi con lui e pare che quello ti somigli"
"Vuoi davvero che io disturbi il Cielo per questo? Va bene Terra, farò come chiedi"
Il Mare allora si mise più piatto e somigliò al Cielo sopra l'orizzonte. Poi schiarendo la voce chiamò:
"Cielo, sono il Mare, avrei bisogno di domandarti qualcosa"
Il Cielo spostò un nembo dall'occhio e guardò in basso:
"Qual buon vento Mare? E' ormai qualche tempo che non ti sentivo. Cos'hai da domandare? Sonnecchiavo sotto la mia coperta felpata d'altostrati"
"Perdona il disturbo Cielo, ma è la Terra che chiede di rivolgermi a te"
"La Terra? – domandò stupito il Cielo - E cosa mai vuol sapere da me la Terra? E perché non mi si rivolge lei stessa diretta, anziché domandare la tua intercessione?"
"Beh, Cielo, la Terra non è più in confidenza con te da tempo. Forse teme di disturbare. Così ha chiesto a me di parlarti ché, dice, pariamo talvolta della stessa sostanza"
"La nostra sostanza è simile sull'infinito, Mare. E' l'orizzonte lungo che ci rende mischiati alle volte. I troppi barattoli e scatolette di cui è costruita la Terra oramai l’hanno fatta ristretta e senz’eco. Più simile ai suoi umani che l’abitano, che a me medesimo. Ma dimmi, cos'aveva essa da chiedermi?"
"Beh, Cielo, la Terra è curiosa di sapere se per caso questa mattina tu avessi sentito violini armeggiare, raffiche di Libeccio in festa e ululati d'uomo contento"
Il Cielo alzò gli occhi a se stesso, in posa pensante. Fece silenzio per qualche momento. Poi disse:
"Ebbene Mare, dì pure alla Terra che ho sentito qualcosa. Ma non violini, né il Libeccio festante e nemmeno ululati"
"E cosa allora?" chiese il Mare curioso.
"Piuttosto un bisbiglio, caro Mare. Un bisbiglio come in quel film di Win Wenders in cui c'ero anch'io, ricordi?"
"Si, si - rispose il Mare - ho capito di che film parli. Non andasti in Germania per girarlo?"
"Già proprio così"
"E dimmi Cielo, anche qui sopra Porto Torres sentivi un bisbiglio di natura umana quest'oggi?"
"Esatto Mare"
"E cosa diceva questo bisbiglio d’uomo?"
"Beh vedi Mare, diceva: Infinito"
"Infinito?" chiese stupefatto il Mare
"Si Mare, ripeteva Infinito”
“E nient’altro?"
“Nient’altro”
“Capisco” pronunciò quello per la prima volta pensoso.
Allora il Mare si gonfiò appena, perdendo i connotati di Cielo. Tornò alla Terra che subito incalzò:
"Dunque, Mare? Che dice il Cielo? Ha sentito qualcosa anche lui?"
Il Mare si mise in posizione di mare e lambendo gli scogli disse:
"Ebbene Terra, oggi è a te che il Cielo somiglia".
Poi si rinchiuse in silenzio. Si accovacciò a fianco la costa e si mise in attesa, cosicché altri umani tornassero ad aprire vele che il vento di terra potesse trainare.
Facebook
"Oggi ho voglia di soffiarti del vento, Mare. Sei d'accordo?"
"Fai come credi - disse il Mare – ma non chiedermi aiuto, oggi è domenica e sono a riposo"
La Terra scelse di soffiare il Libeccio così che il Mare non ebbe niente da fare, nemmeno gonfiarsi di onda.
"Lo senti come soffia?" chiese più tardi la Terra al Mare orgogliosa.
"Veramente io non sento nulla"
"Ma come - incalzò delusa la Terra - non senti come ti sviolina il vento sopra la pelle?"
"Ribadisco Terra, io non sento nulla. E mi sono ignoti i violini di cui parli"
"Oh insomma - si piccò la Terra - Possibile che fai proprio come la Luna? Anche tu nulla eh! Siete tutti uguali"
"Terra - disse il Mare annoiato - io non so che farci. La Luna giurò di non sentire nulla, a te e perfino al poeta. Perché dovrei io dirti cose diverse?"
"Andiamo Mare - disse la Terra materna - Sforzati un poco. Ti ho sollevato il Libeccio sopra la pancia e c'erano quattro esseri umani con le vele bianche che ti correvano addosso. Mandavano ululati al Cielo contenti. Dicevano di sentire violini nell'aria, suoni di sartie, raffiche festanti. E pur’io mi sento tutta ondeggiare”.
Il Mare restò impassibile alle insistenze della Terra:
"Terra, tu premi, ma io appena un solletico avvertivo al mattino. Ora più nulla. E se dici che gli esseri umani ululavano al Cielo, domanda a lui se non abbia sentito farfuglio"
"Al Cielo? Ma io col Cielo non riesco a parlare da anni. Prova a domandarglielo tu, che spesso ti confondi con lui e pare che quello ti somigli"
"Vuoi davvero che io disturbi il Cielo per questo? Va bene Terra, farò come chiedi"
Il Mare allora si mise più piatto e somigliò al Cielo sopra l'orizzonte. Poi schiarendo la voce chiamò:
"Cielo, sono il Mare, avrei bisogno di domandarti qualcosa"
Il Cielo spostò un nembo dall'occhio e guardò in basso:
"Qual buon vento Mare? E' ormai qualche tempo che non ti sentivo. Cos'hai da domandare? Sonnecchiavo sotto la mia coperta felpata d'altostrati"
"Perdona il disturbo Cielo, ma è la Terra che chiede di rivolgermi a te"
"La Terra? – domandò stupito il Cielo - E cosa mai vuol sapere da me la Terra? E perché non mi si rivolge lei stessa diretta, anziché domandare la tua intercessione?"
"Beh, Cielo, la Terra non è più in confidenza con te da tempo. Forse teme di disturbare. Così ha chiesto a me di parlarti ché, dice, pariamo talvolta della stessa sostanza"
"La nostra sostanza è simile sull'infinito, Mare. E' l'orizzonte lungo che ci rende mischiati alle volte. I troppi barattoli e scatolette di cui è costruita la Terra oramai l’hanno fatta ristretta e senz’eco. Più simile ai suoi umani che l’abitano, che a me medesimo. Ma dimmi, cos'aveva essa da chiedermi?"
"Beh, Cielo, la Terra è curiosa di sapere se per caso questa mattina tu avessi sentito violini armeggiare, raffiche di Libeccio in festa e ululati d'uomo contento"
Il Cielo alzò gli occhi a se stesso, in posa pensante. Fece silenzio per qualche momento. Poi disse:
"Ebbene Mare, dì pure alla Terra che ho sentito qualcosa. Ma non violini, né il Libeccio festante e nemmeno ululati"
"E cosa allora?" chiese il Mare curioso.
"Piuttosto un bisbiglio, caro Mare. Un bisbiglio come in quel film di Win Wenders in cui c'ero anch'io, ricordi?"
"Si, si - rispose il Mare - ho capito di che film parli. Non andasti in Germania per girarlo?"
"Già proprio così"
"E dimmi Cielo, anche qui sopra Porto Torres sentivi un bisbiglio di natura umana quest'oggi?"
"Esatto Mare"
"E cosa diceva questo bisbiglio d’uomo?"
"Beh vedi Mare, diceva: Infinito"
"Infinito?" chiese stupefatto il Mare
"Si Mare, ripeteva Infinito”
“E nient’altro?"
“Nient’altro”
“Capisco” pronunciò quello per la prima volta pensoso.
Allora il Mare si gonfiò appena, perdendo i connotati di Cielo. Tornò alla Terra che subito incalzò:
"Dunque, Mare? Che dice il Cielo? Ha sentito qualcosa anche lui?"
Il Mare si mise in posizione di mare e lambendo gli scogli disse:
"Ebbene Terra, oggi è a te che il Cielo somiglia".
Poi si rinchiuse in silenzio. Si accovacciò a fianco la costa e si mise in attesa, cosicché altri umani tornassero ad aprire vele che il vento di terra potesse trainare.
sabato 2 gennaio 2010
Il furto del tempo
Cominciavo il 2009 osservando la calma ciaggadda del mare del primo gennaio e i gesti serafici di un pescatore che conquistava granchi. Il mare oggi non ha conservato la saggezza di allora. Strapazzato di notte da un libeccio rabbioso. L’onda si getta stanca su altra onda di ritorno dagli scogli. C’è un anno nuovo che si affaccia sopra il vecchio orizzonte. È una distanza che si misura col righello del tempo.
Ci fu un tizio una volta, sulle sponde di Silifke, che venne a raccontarmi di una teoria sul tempo e sullo spazio abbinandola all’uomo e alla donna. La donna, disse, è la regina del tempo lungo e dello spazio corto. L’ambiente stretto e la vita longeva l’hanno costretta al senso dell’attesa, alla necessità di un programma. Gravidanza, casa, comunità maturano conservazione, responsabilità al controllo, senso di proprietà, esercizio di custodia, bisogno di sicurezza. L’uomo, disse, è il coito, il tempo breve, l’impermanenza, la sazietà che si cerca e veloce si consuma. Ma il terreno di caccia è spazio illimitato, scoperta, furto e conquista di cose e di libertà. Gli uomini pisciano ovunque e la tazza del cesso è solo un luogo approssimativo i cui contorni sono altrettanto validi per pisciarci sopra.
Poi ci sono maschi e femmine che non rispettano i campi assegnati dal genere. Donne che si fanno marinai, in cerca di terreni vasti su cui sperimentare un programma e uomini che tentano di allungare il tempo per saziarsi di più.
Se si incontrano queste due specie, pensai, non vivranno a lungo insieme, perché tenteranno di depredarsi l’un l’altro.
Ci separammo. Il suo viaggio aveva davanti tutto l’est possibile. Io marciavo verso il ritorno, ad ovest. Sulla strada verso casa contavo ormai i giorni, non più lo spazio che mi separava dalla fine del viaggio.
Seduta sulla sedia di una piccola stanza fatta di vetri, misuro adesso il mare con il tempo lungo che passa e che viene di continuo. Anno vecchio, anno nuovo. Penso di sbieco alle parole del tizio che ha attraversato finora una decina di frontiere e che sta bagnandosi nelle acque di un oceano indiano.
In una sintesi di generi e teorie, me ne sto a sognare itinerari e distanze e a progettare nuovi furti del tempo.
Facebook
Ci fu un tizio una volta, sulle sponde di Silifke, che venne a raccontarmi di una teoria sul tempo e sullo spazio abbinandola all’uomo e alla donna. La donna, disse, è la regina del tempo lungo e dello spazio corto. L’ambiente stretto e la vita longeva l’hanno costretta al senso dell’attesa, alla necessità di un programma. Gravidanza, casa, comunità maturano conservazione, responsabilità al controllo, senso di proprietà, esercizio di custodia, bisogno di sicurezza. L’uomo, disse, è il coito, il tempo breve, l’impermanenza, la sazietà che si cerca e veloce si consuma. Ma il terreno di caccia è spazio illimitato, scoperta, furto e conquista di cose e di libertà. Gli uomini pisciano ovunque e la tazza del cesso è solo un luogo approssimativo i cui contorni sono altrettanto validi per pisciarci sopra.
Poi ci sono maschi e femmine che non rispettano i campi assegnati dal genere. Donne che si fanno marinai, in cerca di terreni vasti su cui sperimentare un programma e uomini che tentano di allungare il tempo per saziarsi di più.
Se si incontrano queste due specie, pensai, non vivranno a lungo insieme, perché tenteranno di depredarsi l’un l’altro.
Ci separammo. Il suo viaggio aveva davanti tutto l’est possibile. Io marciavo verso il ritorno, ad ovest. Sulla strada verso casa contavo ormai i giorni, non più lo spazio che mi separava dalla fine del viaggio.
Seduta sulla sedia di una piccola stanza fatta di vetri, misuro adesso il mare con il tempo lungo che passa e che viene di continuo. Anno vecchio, anno nuovo. Penso di sbieco alle parole del tizio che ha attraversato finora una decina di frontiere e che sta bagnandosi nelle acque di un oceano indiano.
In una sintesi di generi e teorie, me ne sto a sognare itinerari e distanze e a progettare nuovi furti del tempo.
Iscriviti a:
Post (Atom)